Agli albori della civiltà le immagini erano più potenti delle parole. Con la nascita dell’alfabeto queste ultime hanno preso il sopravvento, e l’invenzione della stampa a caratteri mobili ha riconfermato il loro dominio. Con l’avvento del telefono e della radio, del cinema e della televisione, l’homo legens si è via via trasformato in homo sentiens e in homo videns. Con l’avvento di Internet ci siamo progressivamente spostati dalla sequenzialità della lettura alla simultaneità della visione, e il debito di razionalità contratto dall’homo videns potrebbe finire per gravare sulle capacità di astrazione e categorizzazione dell’homo legens. L’ultimo stadio di questo processo è contraddistinto dalla proliferazione dei simboli di un incipiente neoalfabeto per immagini. Va a braccetto con l’esplosione degli “egoritratti” (selfie) che ripropone, condendolo in mille salse, il mito di Narciso. Ad alimentarla è un’autocelebrazione continua che finisce per trasformare le nuove tecnologie nell’appendice di uno smisuratissimo ego. Se siamo sempre più attirati spasmodicamente dai selfie, individuali e collettivi, è anche perché ci sentiamo parte di un mondo “parallelo” che riusciamo sempre meno a determinare, oggettivare o descrivere. Un mondo che tendiamo a personalizzare, forse per reazione a una seria crisi dell’io, al punto da consegnargli le nostre più riposte intimità (corpi nudi o seminudi, pose in luoghi privatissimi, rapporti sessuali o altro) e da chiedergli di rappresentarci in tutte le sfaccettature e sfumature possibili.

Abbiamo sempre più bisogno di sfumature che insegnino a distinguere e dalla necessità di costruire solidi ponti fra parole e immagini. Nell’estate del 2019, ipotizzando che 80 parole italiane fossero a rischio d’estinzione (sebbene alcune realmente lo siano) e qualcuno, d’improvviso, avesse deciso di cancellarle, ho lanciato un contest per invitare a salvarne una, chiedendo di accompagnare l’operazione con un commento sul motivo della scelta. Avrei potuto scegliere 50 vocaboli letterari un po’ impolverati e la cosa sarebbe finita lì. Ho invece deciso di inserire nell’elenco diversi termini tecnici o specialistici, o di consistente diffusione in certi ambiti (da apodittico a catarsi, da comminare a contumaci); termini unici per la loro insostituibilità, per la difficoltà di poterne indicare sinonimi pienamente calzanti, per i loro forti valori semantici (contegno, o morigerato, indaco o laico, soqquadro o zuzzurellone, a lungo l’ultima parola di tutti i dizionari); termini che possono sembrare equivalenti perfetti di parole di uso corrente ed esibiscono invece, sul piano del significato, tratti distintivi o specifici (redarguire, più intenso di richiamare, riprendere o rimproverare, oppure nemesi, rispetto a punizione o a vendetta).

Su molti vocaboli degli 80 prescelti (e altri esclusi dalla selezione), oltre ai miei amici virtuali e a tante persone sconosciute intercettate ovunque, ho testato nell’ultimo decennio diverse migliaia di studenti della scuola secondaria e dell’università. Dovevano indicare per iscritto uno o più sinonimi delle parole proposte, accompagnando l’indicazione con una frase che le contenesse. Volevo ricavarne qualche riflessione anche sulla loro capacità di contestualizzarle, e il quadro che ne ho ricavato induce a riflettere. Centinaia di quegli studenti dimostrano di non conoscere parole come visibilio o esimere, collimare o indigente. Li potrei dire “giovani della superficie”. Non perché siano superficiali, tutt’altro. Accade semplicemente che navighino in quell’immenso oceano che è Internet senza mai immergersi nelle sue acque. E noi adulti, spesso, restiamo lì a guardarli dai nostri fondali.

Malgrado tutto questo l’italiano resiste. Tra le forze o le variabili che oggi più incidono sulla evoluzione della nostra lingua primeggiano la semplificazione e la mescolanza (fra codici diversi, fra l’alto e il basso, ecc.), il cortocircuito (tipico di tante parole ibride, formate da mozziconi di altre parole: adultescente, apericena, bicipolitana, pecapra, trapizzino, ecc.), e il cambiamento. È un punto nevralgico, soprattutto quando cogliamo gli usi linguistici nella loro varie versioni tecnologicamente “dedicate”, quelle circolanti sui nuovi media. Oggi qualunque seria riflessione in materia non può più permettersi di prescindere dalla necessità di un’educazione linguistica condivisa, di un’alfabetizzazione “fluida” di cui sappiamo ancora troppo poco. Un italiano negoziato e negoziabile anche per affrontare nel modo migliore l’odio e il conflitto verbale, e i corretti comportamenti da tenere per provare a risolverli. 

Di identità fluide, oscillanti fra il polo maschile e il polo femminile, parlava il filosofo Michel Foucault già nei primi anni Sessanta del Novecento, e anni dopo i “turbamenti di genere” (Gender Trouble. Feminism and the Subversion of Identity, 1990) dell’americana Judith Butler le avrebbero ribadite. Zygmunt Bauman le avrebbe dette liquide, anziché fluide. Il sociologo definiva liquida la società all’alba del Terzo Millennio, che ha visto cadere via via, uno dopo l’altro, diaframmi e muri divisori. Per gli orientamenti sessuali hanno provveduto le teorie queer, che negano validità all’opposizione binaria fra maschi e femmine. Ora è il turno della lingua e delle lingue contribuire a illuminare la scena di una fluidità che impera in ogni campo (culturale o esperienziale). 

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