Andrea Cassini è una strana creatura. Legge, scrive, traduce e gioca. Gioca moltissimo. Impossibile non traghettarlo qui dentro: pare, udite udite, che il suo primo romanzo sia… gamificabile.
Domanda d’obbligo, pur di riscaldamento: cosa nasce prima, l’amore per la lettura — e poi la scrittura — o quello per il videogioco? 
Cronologicamente parlando, penso di aver cominciato a giocare a Super Mario (sul Nintendo a 8 bit ereditato da mia sorella) mentre ancora stavo imparando a leggere. Da lì in poi i videogiochi mi hanno accompagnato in ogni periodo della mia vita, anche se probabilmente la passione per la lettura (nel senso di un approfondimento critico, da cui è nata poi anche l’idea di scrivere qualcosa di mio) è esplosa prima, durante l’adolescenza. La consapevolezza che anche i videogiochi possedessero un bagaglio importante è arrivata qualche anno dopo, il che forse è il principale motivo per cui ho iniziato a scrivere romanzi prima di tentare la strada del game design – ma vedremo cosa ci riserverà il futuro, non è mai troppo tardi per imparare.

Giocalibri che non lo erano. O sì? (via.)

Qual è davvero il rapporto tra Non tutto il male e la videoludica, secondo Andrea Cassini? A che titolo lo paragoneresti (è ufficialmente un soulslike? 😅)? Come lo vedresti Zero in quella veste? Nell’adattamento che possiamo divertirci a immaginare, quali elementi di trama avresti potuto raccontare ancor meglio utilizzando quest’altro canale? Cos’è che invece è impossibile tradurre in gaming, a partire dal materiale letterario?
Intanto, diamo a Cesare quel che è di Cesare. È stata Diletta Crudeli in una fantastica recensione a definire ‘Non tutto il male’ un romanzo soulslike, e la cosa mi ha fatto venire i lucciconi agli occhi perché non l’avevo detto a nessuno e men che meno proclamato in pubblico, ma avevo proprio cercato di restituire nella narrazione qualcosa delle sensazioni che quel capolavoro di ‘Dark Souls’ è in grado di trasmettere. Un altro termine di paragone costante è stato ‘Shadow of the Colossus’, che del resto ha molto in comune con i titoli di From Software. Alcuni elementi di NTIM sono stati presi dai videogiochi e ho provato a tradurli nel piano di realtà del romanzo. Lo spostamento rapido/teletrasporto di Zero, la quest (che poi ha di suo origini letterarie, quindi è stato carino tentare questo viaggio di ritorno) con oggetti da collezionare e puzzle da risolvere, un protagonista ‘prestanome’ come Zero che potrebbe fungere da avatar del lettore/giocatore, gli incontri con personaggi-chiave che, anche se non tutte sono vere e proprie boss fights, hanno un po’ lo stesso ruolo nell’impianto. Questi se vogliamo sono elementi più estetici. Quel che più mi premeva era l’esperienza, rendere qualcosa anche dell’immedesimazione, del coinvolgimento, di quel senso di vertigine e smarrimento che sanno dare i videogiochi. I soulslike sono massimamente coinvolgenti, per me, perché ti gettano in un mondo ostile dove è richiesto un grande impegno anche solo per capire cosa sta succedendo, e ancora di più per superare gli ostacoli. Quindi mi sono chiesto: un romanzo che come i soulslike ti dica ‘get good’, senza prenderti per mano ma senza neanche frustrarti, è possibile farlo senza risultare artificiosi? Io un po’ ci ho provato, ma il responso migliore potrà darlo chi lo ha letto. A me è sembrata la soluzione ideale, anche perché l’esperienza con ‘Dark Souls’ è stata da molti avvicinata a un’esplorazione nel buio di noi stessi, a una parabola della depressione, e tutto ciò risuona con quello che sta nel cuore di NTIM. A tratti ho dovuto mettermi in guardia da solo dal rischio di scrivere una brutta copia di un videogioco (o di un manga), e ho cercato di riflettere su cosa rende inimitabili i due media.
Io mi sono concentrato sul linguaggio, perché credo sia la parte più ‘intraducibile’ del materiale letterario. Anche il videogioco ha una sua autorialità, ma il romanzo resta sempre in definitiva un sedersi attorno al fuoco e raccontare una storia, perciò i suoi strumenti sono più ridotti ma più intensi. Mi vengono in mente i ‘muri di pixel’ che nei giochi di una volta delimitavano grossolanamente l’area esplorabile del mondo di gioco, oggi mascherati ma presenti. Trovo che il linguaggio sia molto più flessibile intorno ai suoi limiti, e che l’immaginazione possa portare un romanzo molto lontano – che è poi il motivo essenziale per cui ritengo bello e importante scriverli.
Riguardo a una possibile trasposizione videoludica di NTIM, non ti nascondo che ci penso spesso e mi piacerebbe provarci. L’elemento dell’immedesimazione acquisirebbe una marcia in più rendendo la narrazione più vaga e rarefatta, e sarei curioso di vedere una rappresentazione grafica di Tula perché spetterebbe all’ambientazione veicolare parte di quello che io ho cercato di dire a parole. Per quanto riguarda il gameplay, penso ci sarebbero due strade contaminabili. Potenziare l’aspetto epico/simbolico, con combattimenti sulla linea di DS e SOTC, oppure quello da survival/horror soprannaturale – un ‘Silent Hill’, per citare un altro classico.

Bandersnatch, citatissimo, è la serialità tv che tira per la giacchetta il gaming. Dato l’approccio intermodale del videogioco, che coinvolge più sensi, rispetto a quello proprio della lett(erat)ura che si fruisce esclusivamente tramite la vista, immagini un futuro nel quale questi media convergeranno in un’unica grande branca della narrazione, fino alla limatura delle asperità e a una fusione spontanea? Penso a titoli come Device 6: come t’immagini la letteratura aumentata?
Penso che i confini tra i media che citi siano porosi e destinati a confondersi sempre di più. Non sono sicuro invece che si realizzerà una fusione vera e propria: credo piuttosto che l’approfondirsi dell’indagine evidenzierà come ogni media abbia qualità specifiche, magari diverse da quelle che siamo abituati a considerare, e potenzialità ancora da esplorare. Se vogliamo, il sospetto nasce già oggi. Persino i grandi videogiochi peccano quando vogliono assomigliare troppo al cinema (chiedo perdono, Kojima-sensei), segno che il medium è ancora giovane. Queste asperità che citi, insomma, potrebbero essere troppo preziose per essere limate. Ma una fusione spontanea, questa direi è la parola chiave, sarebbe la benvenuta se inglobasse tali asperità senza cancellarle.

L’esempio di Bandersnatch è calzante. Mi vengono in mente anche i videogiochi di David Cage e della Quantic Dream, come ‘Detroit: Become Human’, ma il discorso può allargarsi a vari RPG a scelta multipla. Sono giochi piacevoli, ma lo stratagemma della scelta multipla crea un’idea di interattività soltanto artificiale (su questo ‘The Stanley Parable’ ironizza in maniera acutissima). Siamo di fronte a una storia a bivi, un genere che merita considerazione ma che penso si possa dare ormai per assodato. Per fare un paragone: ‘The Last of Us’, 1 e 2, propongono una storia similmente cinematografica con personaggi degni di un film, non ci sono scelte multiple e la trama va seguita linearmente, ma l’atmosfera, il gameplay, la scrittura, restituiscono la pesantezza di ogni azione e gesto come se davvero la scelta fosse stata nostra. Lo stesso si potrebbe dire dei walking simulator (Dear Esther, What remains of Edith Finch): c’è ancora meno da fare e praticamente nulla da scegliere, ma l’investimento emotivo è alle stelle. Trasponendo questo concetto alla letteratura, mi vengono in mente alcune finestre: la lore che può crearsi autonomamente intorno a un libro, le teorie e gli scambi fra i lettori, una community, una critica letteraria che sviscera aspetti di un libro a cui l’autor* non aveva pensato, un po’ come l’addentrarsi nel codice di un videogioco alla ricerca di un glitch. A questo proposito, c’è un’ultima cosa che mi interessa molto e che mi sembra produttiva nel dialogo tra videogiochi e letteratura. Cosa si può fare con un videogioco? Mi vengono in mente le run vegane di Zelda, o quei giocatori che si sentono così in colpa nell’impersonare il protagonista di ‘Shadow of the Colossus’ che smettono di uccidere i Colossi, a costo di non terminare l’avventura, pur adorandola. Queste sono scelte “vere”, seppur interne all’ambiente di gioco, ludiche o metaludiche che siano. (Su queste cose, ringrazio sempre Stefano Gualeni che mi ha insegnato moltissimo sull’analisi videoludica e il game design, consiglio a tutti di provare i suoi videogiochi e leggere i suoi saggi e articoli). Ma poi si può andare oltre. I glitch, le speedrun. Una volta ho intervistato Kosmic, all’epoca detentore del record di speedrunning per Super Mario Bros, e mi disse una cosa che mi colpì molto. Quella che a me sembrava una pratica rutilante e noiosa, giustificata perlopiù dalla competitività, ai suoi occhi era invece un gesto d’amore per il gioco, la volontà di spremerlo fino all’ultima stringa del codice, per vedere cosa si può fare con quel gioco. Ecco; e cosa si può fare con un libro, invece? Perdonami se chiudo un’intervista con altre domande, ma la risposta non la so e mi sembra bello ragionarci insieme. Esiste l’equivalente di un glitch in un romanzo? Se ne può fare una speedrun?

Aspettiamo le risposte. Di chi sta leggendo, ora. Ché se un refuso non sarà mai un glitch né una maratona da bookclub sarà mai l’equivalente di una speedrun, cosa dire di ciò che accade tra le pagine di Casa di foglie di Mark Z. Danielewski (in copertina, artwork di Guilherme Krol Lins)? Ci torneremo su.

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