Puoi giocare, sì, ma non necessariamente quando ne hai voglia: solo in fasce orarie autorizzate. Col coprifuoco, insomma. Distopia, l’ennesima? No: Tencent.

Colossale azienda cinese fondata nel 1998 — parliamo di comunicazioni, internet, telefonia mobile, intrattenimento: gaming, soprattutto —, Tencent Holdings Ltd. ha fieramente annunciato l’introduzione di una tecnologia di riconoscimento facciale concepita a un unico scopo: quello di identificare il mini-umano piazzato davanti al proprio device impedendo che giochi ai videogiochi tra le dieci di sera e le otto di mattina. Come? Con una strumentazione a prova di raggiro, naturalmente. 

Riconoscimento facciale:
mostrami chi sei

L’annuncio dell’iniziativa è avvenuto tramite il sistema di messaggeria cinese QQ, che l’ha definita inizialmente zero-hours cruising. Ma la chiamano già midnight-patrol, ovvero ronda di mezzanotte: potrebbe in effetti dimostrarsi risolutiva nello stroncare le modalità truffaldine con cui tantissimi giovani gamer hanno finora aggirato le restrizioni già in atto. Sin dal 2019, infatti, la percezione di uno stato d’emergenza legato a un allarme da ludopatia diffusa tra gli under 18 aveva indotto il governo cinese a stabilire un tetto massimo di spesa per gli acquisti in-game da parte di gamer minorenni. La corsa alla medicalizzazione della dipendenza da gaming, peraltro riconosciuta solo nel 2018 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come gaming disorder, trova quindi un alleato insperato proprio nella tecnologia.

Se l’approccio precedente, forse più ingenuo, prevedeva infatti che ci si loggasse tramite ID ufficiali collegati a un database nazionale per accedere ai giochi, norma che avrebbe facilmente consentito il tracciamento dell’attività e soprattutto dell’età dei singoli gamer coinvolti, l’escamotage puntualmente intravisto è passato naturalmente per il login dai profili dei propri genitori. Ora, invece, l’idea è che chiunque giochi per un certo periodo di tempo debba sottoporsi a una vera e propria scansione facciale pur di provare la propria maggiore età. Qui le cose si complicano, naturalmente.

Il colosso Tencent

I test, iniziati qualche anno fa, lasceranno ora posto a un trial run di più di sessanta giochi da parte di quella che è forse la più grande produttrice di videogiochi al mondo. Molti dei suoi titoli di maggior successo — Honour of Kings e Game for Peace, per esempio — sono fruibili esclusivamente da smartphone: e il riconoscimento facciale è naturalmente molto più facile da implementare tramite la fotocamera frontale di un cellulare, rispetto a quanto accade loggandosi da computer o console. 

Ma che cos’è, di preciso, Tencent? È WeChat, per esempio. (Ricordate il drama trumpiano di fine 2020, vero?) Ed è gaming, si diceva: che è la sua principale fonte d’introiti, probabilmente. Possiede il 40% di Epic games (quelli di Fortnite, per intenderci) e ha la licenza di distribuire Battlegrounds di PlayerUnknown — anche se non (ancora…) il diritto di farlo in Cina. Possiede anche Riot Games, ovvero la casa di produzione di League of Legends. E ha investito in una ventina di altre realtà di grandissima rilevanza nel settore: Ubisoft e Discord, per dirne due. 

Secondo Kerry Allen, media analyst della BBC, il tenero pinguinetto della Tencent sta ai mini-umani cinesi come la M di McDonald’s ai colleghi born in USA: ”Tencent è considerata molto più di una semplice azienda cinese, in patria”, ha raccontato. “S’è guadagnata la fama di organizzazione family-friendly, che in quest’era digitale mantiene collegati nuclei familiari, amici, colleghi di lavoro. Il suo modello di business invidiabile può raggiungere un pubblico fondamentalmente trasversale”. Cosciente o meno, peraltro: è già palesemente presente all’interno dei nostri consumi culturali: oltre ai giochi, musica e cinema non ne sono immuni.

Allarme pinguino (via.)

Ma che intendiamo per gaming disorder?

L’allarme è giustificato? E quanto? Per parlare di vero e proprio disturbo, non c’è soglia temporale da superare: contrariamente a quanto potremmo pensare, non importa quante siano le ore passate davanti al proprio device d’elezione. Piuttosto, si tratta di una specifica impossibilità: quella di mollare il gioco di turno a prescindere dall’impatto sui rapporti interpersonali, quelli familiari, la scuola, il lavoro, il ciclo sonno-veglia — il tutto per almeno un anno. E, in un tentativo di gestire ciò che secondo la Cina costituisce appunto l’allarme di cui sopra, proprio dal 2018 le release di nuovi giochi sono state paralizzate fino a centellinare uscite ulteriori, limitate nel numero.

Il numero di ricerche medico-scientifiche in direzione gaming disorder è ancora troppo limitato per trarre da questi segnali poco più che vaghe suggestioni à la Black Mirror; nel frattempo, mentre proverbialmente aspettiamo di capirci qualcosa, non ci resta che guardare con nuovi occhi quella funzione non-così-nascosta che occhieggia dai sottomenu di parecchi smartphone: l’avviso garbato che ci segnala per quanto tempo l’abbiamo avuto tra le zampe, nell’ultima settimana, e soprattutto come abbiamo impiegato quel determinato numero di ore. Sarà che per riscrivere gli immaginari tocca smettere d’incamerarne, a un certo punto, e iniziare a produrre. Con gli occhi sempre pieni d’immaginari altrui può essere difficile, ecco.

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