I modi in cui ci rappresentiamo le cose e la loro forza condizionante.
Ad esempio, la giungla.
Si dice che la città sia una giungla, che il mercato sia una giungla, che il mondo del lavoro sia una giungla e, in momenti di lirismo da bar, che la vita stessa sia una giungla. Si evoca allora, più o meno esplicitamente, la cosiddetta legge della giungla, con la quale si intende nessuna legge o, che è lo stesso, la legge del più forte, anche se cosa significhi essere il più forte (leoni o volpi, talpe o muli) può variare a seconda della situazione. In ogni caso ciò che è selvatico, aggrovigliato, impervio, incontrollabile, isolato dall’etichetta e impermeabile alla pietà, denso di attività continua, senza riposo – tutto questo è giungla. In essa si annidano piante che strozzano i polmoni, e a varie altezze si muovono animali subdoli e brutali che non conoscono libri sacri.

I libri sacri si scrivono nei deserti. Da lì, come dal mare, vengono le leggi senza tempo e la reverenza per tutto ciò che si vede e non si vede. Ma la metropoli, il mercato, il mondo del lavoro, o la vita non sono quasi mai descritti come deserti, e quando lo sono l’intonazione è patologica, di drammatica deviazione dalla norma e fallimento. Una bella festa è una giungla, non un deserto. Dai deserti bisogna uscire. A volte se ne esce purificati, ma alla giungla inevitabilmente si torna. Nella nostra testa, la giungla è l’ecosistema di riferimento.    

Si muore sia nella giungla che nel deserto, ma nel deserto si resiste mentre nella giungla si lotta. Nel deserto si permane o scompare nel silenzio, sferzati da forze invisibili, mentre nella giungla ci sono mischie, grinta, guerriglie, segnali, bisbigli, strategie, opportunismi, e gestione di se stessi e degli altri. Nella giungla, la distinzione fra ciò che è vivo e ciò che è morto è netta; nel deserto è una dissolvenza senza riferimenti.  Il deserto sfibra le forze e rompe gli angoli della bocca; nella giungla si attinge continuamente all’energia circolante delle acque per caricarsi alla competizione. Nel deserto si può morire o sopravvivere e in ciascun caso non fa alcuna differenza per nulla e nessuno. Nella giungla invece la morte crea spazio, e conta per tutti perché la morte di uno può essere la vita di un altro. Nella giungla, poi, oltre a morire e sopravvivere, si può anche uccidere e dominare.

Né descrittive né prescrittive, le metafore sono seduttive. Seducono le nostre interpretazioni. Cosa ne segue se la città, il mercato, il lavoro, la politica e, come dicono i più tosti e realisti fra noi, anche la vita, sono giungle? Degli animali di giungla, nella selva oscura e dal cuore di tenebra, sono troppo piene le nostre fantasie, paure, mitologie e proiezioni narcisistiche. Per prendere un minimo di distanza supponiamo allora d’essere piante. In una giungla dobbiamo crescere velocemente per emergere sulle altre. C’è abbondanza d’acqua ma competiamo per spazio e luce. Per guadagnare spazio e luce dobbiamo investire sulla nostra crescita individuale, ottimizzare le prestazioni, assicurarci quanta più acqua possibile con efficienti sistemi di pompaggio, e puntare in alto, non ad un’altezza finale ma più in alto degli altri. È la legge: la giungla sale in verticale, le piante più alte fra noi ne avranno tante sotto di sé. Poiché siamo piante di giungla, il nostro salire in alto è descrivibile ed interpretabile come un perfezionamento del nostro essere. È superando noi stesse che superiamo le altre. Per obbligo di prestazione ci allunghiamo allora senza risparmiarci, accettando una certa fragilità sistemica: investendo tutto nella crescita tendiamo a difettare del surplus di carboidrati necessario alla manifattura di difese fisiche e chimiche. Allora le assoldiamo: integratori, allenatori, collaboratori, formatori, investitori, comunicatori, stimolatori, innovatori, motivatori, massaggiatori, stabilizzatori e guaritori. Anche questi lottano in qualche loro porzione di giungla e vogliono spazio e luce, e tutti devono pompare con crescente efficienza quanta più acqua possibile per acquisire massa e realizzare più vita. Per quanto tutti siano efficienti, nessuno è auto-sufficiente. Ci associamo per competere. Questa associazione è affascinante, e volubile come i legami competitivi che la puntellano.

In un deserto siamo invece piante diverse. Non impegnate in competizione per spazio e luce, e con poca acqua cui attingere, non cresciamo velocemente. Poiché non c’è acqua non possiamo produrre foglie e tessuti nuovi che coprano o rimpiazzino quelli danneggiati o indeboliti. Senza circolazione di liquidità non possiamo ampliarci, aggiornarci e reinventarci continuamente, e dunque non abbiamo gran fede che le distruzioni siano creatrici. Nel deserto dobbiamo negoziare con l’irreversibile, e ci specializziamo allora nel consolidare ciò che c’è. Invece di allungare i tessuti verso l’alto, espandiamo le radici aggrappandoci verso il basso. Ci compattiamo al suolo. Ci ispessiamo e induriamo. Produciamo alcaloidi. Mutiamo le foglie in spine. Massimizziamo robustezza e non crescita, lo facciamo lentamente e ci strutturiamo per durare a lungo. Siamo acquiescenti: non facciamo network, non reagiamo ad ogni stimolo e non siamo sempre attive. Differiamo la fotosintesi alla sola notte, e di giorno ci risparmiamo. Siamo dunque inefficienti, né siamo più vitali del necessario. Siamo quasi pietre, e ogni punto d’appoggio è interno.  

I modi in cui ci rappresentiamo le cose, e come le cose cambiano. Le nostre città sono giungle fragili. I grandi deserti dell’Africa e d’Australia prima erano giungle, poi è mancata l’acqua e alcune metafore hanno perso applicazione.  

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