Dopo il debutto al Teatro del Giglio a Lucca, giunge al Teatro Due di Roma (Vicolo dei Due Macelli 37) L’ORESTE. Quando i morti uccidono i vivi, il nuovo spettacolo di Francesco Niccolini, interpretato da Claudio Casadio per la regia di Giuseppe Marini. Co-prodotto da Società per Attori e Accademia Perduta/Romagna Teatri, da martedì 16 a domenica 28 novembre 2021, nella vetrina di drammaturgia italiana contemporanea e nuovi linguaggi scenici Expo Teatro organizzata da Società per Attori.

Definisci il tuo Oreste una realizzazione di graphic novel theatre …
Nonostante una lunga militanza teatrale come attore prima e ancor più come regista, devo ammettere che non ne sapevo molto del graphic novel theatre. Ma sono sempre stato un temerario e coraggioso, lo ammetto, anche perché ho sempre evitato di cadere o sclerotizzarmi in uno ‘stile’ (lo stile non c’è bisogno di riaffermarlo con ansia, se c’è si vede). Questa interazione tra teatro e fumetto, così come da me concepita, ha immediatamente avuto l’obiettivo di rafforzare il teatro, cercando di entrare nel suo linguaggio specifico che è il dialogo. Il protagonista è continuamente occupato in un dialogo con i personaggi/proiezioni della sua mente (i comics appunto: Ermes, la sorella, un dottore e un infermiere). Tutta questa impaginazione mi ha dato la possibilità di trattare un tema serissimo come la malattia mentale in un modo originalmente leggero, che non vuol dire superficiale, ma con un tocco favolistico e infantile. In fondo si tratta, o così ho voluto impaginare lo spettacolo, di una favola dolceamara.

Il tuo teatro affonda in questa occasione la lama nei temi del dolore e della solitudine. Quale registro adotti per sollevare l’empatia dello spettatore?
Dolore e solitudine attraversano molti testi contemporanei, a patto che siano ben scritti, s’intende, proprio perché la società contemporanea è così conformata. L’illusione di una comunicazione globale (rete) anche con tutte le sue storture linguistiche… ha sostituito un rapporto primario, empatico, che deve avere necessariamente il suo linguaggio, uno sguardo, un contatto fisico, un abbraccio… In ogni caso io non amo in teatro, come nella vita, le famose ‘rime baciate’ secondo le quali siccome un testo tratta di solitudine e di dolore, allora deve essere pesante e deve far piangere… Ormai abbiamo capito da tempo che la tragedia contemporanea ha bisogno e passa per il suo contrario, il riso, la commedia, l’importante è sostanziare quel riso e quella commedia e capire da cosa è originata. Insomma, da sempre sono stato attratto da questa feconda contiguità di contrari. In particolare in questo spettacolo mi sono prefisso un obiettivo molto difficile a teatro: il ‘delicato’. Occorre avere una mano ferma e lucida per trattare in questo modo, molto precisa e non sempre in battere. Il delicato e i suoi aghi di sofferenza possono far più male…

Giuseppe Marini è anche regista di teatro civile, stai per tornare al Franco Parenti con il tuo caso Braibanti: cosa ha da raccontare questo lavoro all’Italia dell’affossamento Zan? Io ho nei confronti de Il caso Braibanti un rapporto come un padre che propende per un figlio piuttosto che un altro, lo ammetto. Ne ho fatti tanti, tante drammaturgie, tanti cast, attori famosissimi come ensemble corali. Ho un debole per questa storia e per gli attori che la raccontano e per la forma teatrale scelta: una sorta di teatro di narrazione a ma manière dove due soli attori interpretano a rotazione tutti i personaggi della storia, con un corto circuito interessante e che conferisce all’operazione un valore aggiunto. Si tratta di un ritorno ai miei primi esperimenti scenici iniziali, delle ‘radici quadrate’ sceniche dove il meno è di più (Quadrat da Beckett, Casa di bambola, da cui tutto è partito…). Non credo che l’affossamento della legge Zan abbia bisogno di commenti se non rilevarne il deplorevole e il vergognoso. Quell’affossamento certo è paragonabile a quella pagina nera della nostra cultura, della nostra giustizia, della nostra civiltà che è stato quel processo farsa ad Aldo Braibanti. Era il ’68, spinte in avanti e spinte retrograde e reazionarie. Questa coesistenza è una delle caratteristiche specifiche di questo paese.

Questo anno fortunato ti vede girare anche con ‘La classe’: come vivi lo scambio tra teatro e studenti? 
A proposito di teatro civile (sempre a modo mio) è vero, riprenderò ‘La Classe’ per il terzo anno e con una tournée importantissima che tocca tutti i più importanti teatri nazionali (a Roma sarà al Quirino in aprile). Credo che ‘La Classe’ sia uno dei rarissimi esempi di come una compagnia senza nomi in cartellone possa approdare nei più importanti teatri italiani e per tre anni. Sottolineo la bella soddisfazione per questa eccezione davvero notevole. Il teatro di giro ha altre regole e altre necessità in genere… Teatro e studenti dovrebbe essere un dittico inscindibile, solidissimo. Il teatro deve entrare nelle scuole, ma non come optional, ma come materia fondamentale. Solo così si forma alle basi un nuovo pubblico affinandone un gusto, ma anche una competenza.

C’è anche una collaborazione con Emanuele Salce: vuoi accennarne? 
Certo, Emanuele, che avevo aiutato per il suo esordio felicissimo Mumble Mumble che ormai ha 10 anni di vita, mi ha chiamato per questa sorta di numero due (che come tutti i numeri due è più impegnativo). Dopo Stabat Mater con la Paiato e L’Oreste con Casadio avevo deciso di dire basta alla direzione dei monologhi (che ho fatto con gioia immensa, sia chiaro), ma l’affetto e la stima per Emanuele mi hanno fatto decidere per una deroga… Come dire… in teatro, come nella vita i giuramenti sono sempre un po’ sospetti: mai dire mai.

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