Con la Decisione UE 2020/1360, del 28/09/2020 la Commissione europea ha dato il via libera all’impiego di una varietà di soia geneticamente modificata – resistente a Dicamba, Glifosato e Glufosinato ammonio – per la produzione di alimenti e mangimi. Si tratta di una nuova (ma di certo non la prima) apertura agli Organismi geneticamente modificati (OGM) nel nostro continente.

Se l’UE apre agli OGM

Se si guarda all’Europa come speranza per il futuro o come modello di governance per altre aree regionali o per i sistemi di regolazione mondiali, segnatamente sul tema dell’agro-alimentare, occorre considerare con attenzione le posizioni dell’UE sugli OGM e prodotti correlati (come i diserbanti a base di Glifosato e Dicamba).

In questo senso, un’eventuale apertura agli OGM da parte dell’Ue segna un’altra modificazione, ben più significativa e forse più temibile di quelle genetiche, perché ha ad oggetto convinzioni e valori che sono storicamente alla base del modello europeo. Tra questi si possono citare l’equilibrio tra priorità economiche individuali e benessere della società; il rispetto per l’ambiente e per la dignità umana, nonché la regolazione pubblica del settore agro-alimentare che, per caratteristiche, non può essere lasciato solo alle logiche del profitto e del mercato.

Dopo anni di resistenze e battaglie che hanno avuto il loro apice nella decisione di un Panel della WTO che nel 2006 ha condannato la Comunità europea a rimuovere la moratoria nei confronti di OGM provenienti da Canada e Stati Uniti (ne parlo qui), l’Europa non sempre sembra resistere alla pressione – subdola e violenta al tempo stesso – da parte delle compagnie multinazionali alimentari a sostegno delle biotecnologie. La prova la si ha con il Glifosato (un potente erbicida adoperato soprattutto nelle coltivazioni OGM, che dovrebbero essere immuni dai residui lasciate da quest’ultimo): l’Ue ha rinnovato il permesso di adoperarlo, per altri 5 anni, con scadenza nel 2022. Alcuni Stati, però, si sono già attivati per vietarne l’utilizzo.

Ma perché dobbiamo temere gli OGM?

Ma perché gli OGM tradirebbero questi valori, e cosa sono veramente? Perché dovremmo temerli? Possiamo permetterci che sia il mercato a decidere se questi possano essere prodotti, venduti e consumati o dobbiamo regolarli con strutture e azioni di natura pubblicistica?

Alcune risposte le trovate nell’ultimo Mag-Book di Rewriters sul Pianeta Terra, nel capitolo che mi è stato affidato, proprio sul tema degli OGM. Intanto, si può dire che gli organismi geneticamente modificati sollevano sicuramente vari interrogativi, ma – è bene chiarirlo – non sul fatto che vadano studiati, che occorra continuare la ricerca su questi temi e che sia utile fare esperimenti biotecnologici, ma in merito alla loro commercializzazione senza restrizioni e forme di controllo.

Dal punto di vista della salute umana, ad esempio, se ne sa molto poco. A oggi, a dire il vero, va anche detto che si riscontrano pochi risultati scientifici conclusivi che ne dimostrano la pericolosità. Nondimeno, sarebbe ingenuo valutare una tale tecnica su un arco temporale così breve (in America sono commerciati, su larga scala, da non più di 20 anni e solo pochi tipi sono destinati all’alimentazione). Inoltre, vari studi effettuati da scienziati indipendenti (Si vedano i documenti presenti sul sito GMWATCH o le ricerche di Arpad Pusztai) hanno mostrato, in più occasioni, che i rischi per la salute umana provocati da tali prodotti sono più che una possibilità teorica.

In secondo luogo, occorre chiedersi: è accettabile che sia permesso a società per azioni, finalizzate – come è legittimo dal loro punto di vista – a massimizzare i profitti, di intervenire così massicciamente sulla natura, creando ibridi nuovi, alterando i caratteri propri delle specie vegetali, aggirando le regole biologiche? E soprattutto: non sarebbe il caso di informare in modo indipendente e consultare i cittadini su tali questioni? Qui non è in gioco solo l’etica individuale del produttore o del consumatore. Siamo invece di fronte a una tecnica agricola che potrebbe rivoluzionare l’ambiente con uno sbilanciamento sproporzionato nel normale rapporto uomo-natura. Anche qualora ciò producesse solo vantaggi e nessun difetto, si avverte la necessità che la popolazione – dei singoli Stati e mondiale – vi riflettesse con attenzione e pervenisse ad una decisione condivisa.

In terzo luogo, sono ormai noti i danni che alcune tecniche biotecnologiche apportano alla biodiversità e all’ambiente, in special modo con il trasferimento orizzontale dei geni modificati da un campo all’altro o con l’aumento dei pesticidi per neutralizzare i parassiti che si formano adattandosi ed evolvendosi rispetto alla nuova pianta (M. Buiatti, Le biotecnologie, Bologna, Il Mulino, 2004; G. Altieri, Il codice ecologico perfetto, disponibile in Internet al sito www.ariannaeditrice.it).

Con riferimento ai danni alla biodiversità, basti pensare alla poco savia ambizione dell’uomo di controllare la natura prevedendone e determinandone le evoluzioni: l’alterazione di un elemento a livello genetico modifica profondamente un ecosistema venutosi a determinare e a perfezionare nel corso dei secoli in maniera non prevedibile. Di qui, riducendo la biodiversità si rischia di trovarsi di fronte all’impossibilità, per la natura come per l’uomo, di rispondere a un evento che possa distruggere quel prodotto.

Un’abberrazione economica e giuridica, e non solo…

In quarto luogo, le biotecnologie, anche quando scarsamente efficienti, hanno l’enorme sostegno patrimoniale delle multinazionali che le producono e una tutela giuridica difficilmente superabile, perché basata sul diritto di brevettare i prodotti geneticamente modificati, in quanto prodotti dell’ingegno. In questo modo le grandi compagnie operanti nel settore godono di una posizione dominante che va a danno di produttori e agricoltori che usano metodi tradizionali o biologici. In nome del mercato, quindi, si crea un regime commerciale scarsamente competitivo e profondamente squilibrato; arrivando così ad alterare il gioco della concorrenza, che del mercato dovrebbe essere il principio fondamentale. In modo particolare, si insiste sulla possibilità di costringere i contadini a pagare le royalties per semi e piante che hanno coltivato e piantato da generazioni: si tratta, se non di un’assurdità morale, almeno di un’aberrazione economica e giuridica.

Infine, si deve sottolineare l’impatto che le biotecnologie avrebbero sui sistemi agricoli europei e ancor più italiani: si tratta infatti di poche varietà (cotone, colza, mais e soia), la maggior parte delle quali destinata a divenire mangime. Appare quindi poco razionale e strategicamente fallimentare aprire a un modello agricolo che potrà essere conveniente nel breve periodo ma che a lungo andare sconterà la difficoltà di competere con i concorrenti del Sud e del Nord America, che hanno a disposizione distese vastissime di terra coltivabile. Senza contare che destinare i campi alle coltivazioni OGM significa sottrarli a quelle dedicate alle nostre eccellenze agroalimentari.

Occorre una regolazione pubblica

Quanto appena esposto è sufficiente a sostenere che la materia in oggetto non può essere semplicemente lasciata alle forze del mercato e alla dialettica tra gli operatori. È evidente che vi è la necessità di una regolazione pubblica che valuti costi e benefici, rilasci autorizzazioni, disponga limiti o incentivi, con riferimento a tutto ciò che concerne la produzione, il commercio e, eventualmente, il consumo umano di OGM. Poiché tale regolazione non è più una questione meramente nazionale, ma è di rilevanza globale, la domanda inevitabile è: chi decide? E come?

Di fronte alle numerose pressioni – della comunità globale come degli Stati che sono favorevoli agli OGM – l’Europa sta allentando le barriere nei confronti di tali beni. Questo approccio coincide con la convinzione, ancora diffusa nonostante la crisi, che la regolazione pubblica debba essere minima, lasciando che sia il mercato ad individuare l’interesse generale, ad allocare i poteri e a guidare la politica pubblica. Basta scorrere nuovamente tutte le perplessità sugli OGM per comprendere che così si rischia un’inarrestabile race to the bottom e la perdita del senso e dell’utilità della politica in tema di agroalimentare.

La politica e la regolazione del settore agroalimentare devono essere intese come guida di una società che ha bisogno di regole, di controlli e di uomini, democraticamente eletti e politicamente responsabili, in grado di prendere decisioni con uno sguardo al futuro. Senza una guida di questo tipo, se i tratti tipici dell’identità europea sono sopraffatti dalle esigenze economiche del capitalismo parassitario (Z. Bauman, Capitalismo parassitario, Roma-Bari, Laterza, 2009) e selvaggio, nonché dalla voracità dell’economia canaglia (C. Petrini, Terra madre. Come non farci mangiare dal cibo, Slow Food Editore, Giunti, 2009), che in nome del profitto rinunciano a qualsiasi valore, sogno o principio e in nome dell’efficientismo più miope e triste cercano soluzioni nella tecnica dimenticando l’umanità degli uomini, allora non possiamo guardare al futuro con ottimismo.

Tuttavia, gli strumenti per resistere e adottare un paradigma alternativo ci sono ancora: dobbiamo solo avere la volontà di metterli in pratica. Cominciando a informarci e a ragionare sulle questioni che abbiamo di fronte.

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