La scorsa settimana è successa una cosa in realtà sempre più rara all’interno della musica italiana, questa: è uscito un disco che non riesci a prendere, inquadrare, che insomma per stile e linguaggio ti sembra davvero una roba mai sentita prima, che sfugge alle etichette. E ok, probabilmente è l’effetto della novità a parlare, ma se proprio non siamo a questi livelli ci andiamo, comunque, molto vicini. L’album in questione porta il nome del gruppo che l’ha firmato, gli Studio Murena, un collettivo a metà fra il muretto e il conservatorio. E che, in soldoni, si è inventato questo matrimonio qui: da una parte, il jazz studiato e moderno, a cui, se dovessimo trovare un riferimento pop nostrano, associeremmo i Calibro 35; e dall’altra, nei testi, il rap con le rime, i cliché del caso e persino il bollino explicit di Spotify. Tiè.

Ma capiamoci di più. Il gruppo in sé non è un inedito assoluto, nel senso che ha già alle spalle un lavoro d’esordio e il suo nome, specie attraverso singoli e singoletti di avvicinamento a questa seconda fatica, è pure abbastanza sdoganato fra quelli che ne sanno. Però, appunto, rimane ancora in una bolla, e soprattutto – rispetto a quel primo album – a oggi c’è stata una vera e propria trasformazione al limite del reboot, che l’ha portato a essere l’ibrido weird e affascinante di adesso. Il debutto di Crunchy bites, infatti, era sostanzialmente elettronica e comunque solo strumentale, in formazione ridotta. Perché adesso il gruppo è composto da cinque musicisti, provenienti dal conservatorio di Milano dove si sono conosciuti, hanno imparato a padroneggiare e gli strumenti e, a una certa, si sono pure sentiti in gabbia. Rispondono ai nomi di Amedeo Nan alla chitarra elettrica, Matteo Castiglioni ai sintetizzatori, Giovanni Ferrazzi alle macchine, Marco Falcon per la batteria e Maurizio Gazzola al basso elettrico; sul palco si vestono del tutto casual; e fanno, dicevamo, una roba squisitamente da nerd, un jazz rigorosamente suonato con influenze fusion, progressive, funk.

E poi, sopra a tutti, a rappare c’è Carma, MC che si è formato nel parcheggio della Esselunga di Milano con la NH3 Crew e che oggi con le sue rime dà fuoco a queste basi jazz. Ed è un hip-hop tutto suo, certo, ma anche standardizzato e robusto, a metà fra l’old school italiana e la trap più recente, con poche inclinazioni alla melodia e molte alla metrica dura, alle tematiche di strada. Ecco: pezzi-manifesto di questa sintesi fra mondi non mancano di certo qui (i singoli Eclissi e Password, fra i migliori), ma il brano di Studio Murena da ascoltare più di tutti è Long John Silver. Dove, su una base jazzata e smaliziata proprio in stile Calibro 35, coi crescendo al punto giusto, si innestano le sgasate di Carma, in cui sputa veleno e manda schiaffi, che sono tutte un cliché voluto e cercato e credibile di «crew», «la vita è una puttana e solo a me non me la dà», «torno a casa e al cesso sbocco le tonsille».

Ora: è chiaro che il legame fra jazz e rap non è assurdo come sembra a primo impatto, anzi in America è più che sdoganato – il capolavoro di Kendrick Lamar, To pimp a butterfly, ha proprio quelle radici, per dire. Però lì si tratta di convergenze fra elementi della cultura black, mentre da noi il discorso è diverso (leggi: assente) e il fatto che gli Studio Murena suonino credibili e freak senza sembrare assemblati con lo scotch, li rende un piccolo miracolo italiano, un gruppo di frontiera per la nostra musica. Di più: con l’idea di jazz sempre più ovattata che ci portiamo dietro, come un genere di santoni che se la suonano e se la cantano nella loro torre d’avorio, un progetto del genere, attraverso una sintesi tanto immediata e naturale fra accademia e strada, ci porta alle radici del genere. Quelle sporche, drogate, che scorticano le dita. E che ci piacciono di più.

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