Per inaugurare la mia prima collaborazione con REWRITERS ho pensato di presentare un “contenitore” inedito chiamandolo semplicemente Golden Records. Su numerose riviste esistono rubriche dedicate ai così detti Dischi da isola deserta, nelle quali vengono recensiti gli album più belli della storia, e ho pensato di selezionare, fra le centinaia di lavori potenzialmente appartenenti a questa ideale categoria, quelli che vengono indicati come i migliori in assoluto nel proprio genere, dal punto di vista della critica e del pubblico, nonché a livello commerciale. In altre parole, si tratta di album da Medaglia d’Oro che, verosimilmente, nessuno riuscirà a spodestare dall’apice del loro podio. 

Come primo episodio ho scelto il Jazz, genere, spesso considerato “per intenditori” e nell’ambito del quale l’album di riferimento “definitivo” è Kind of blue di Miles Davis. Quest’opera di soli cinque brani presenta diversi motivi per i quali è unanimemente osannata. Innanzitutto, la sua genesi e le sue due session di registrazione nel marzo del 1959 (eseguite negli studi della Columbia a New York) sono leggendarie. Infatti, il grande trombettista americano non previde alcuna prova iniziale, ma si limitò a consegnare ai suoi colleghi musicisti solo le linee melodiche base sulle quali avrebbero dovuto improvvisare.

Stando alle parole di Bill Evans “Miles concepì questi pezzi solo qualche ora prima dei giorni della registrazione e arrivò con dei bozzetti che indicavano al gruppo cosa dover suonare. Perciò sentirete qualcosa di vicino alla pura improvvisazione in queste performance. Il gruppo non aveva mai suonato prima delle registrazioni questi pezzi e penso anche che, senza alcuna eccezione, la prima di queste fu anche quella definitiva”. Si trattava di un approccio nuovo, tecnicamente detto “modale”, sul quale Davis stava già iniziando a lavorare – sulla scia del compositore George Russel – sin dai tempi di Milestones, dell’anno precedente.

Il suo obiettivo, in estrema sintesi, era svincolare il jazz il più possibile da legami strutturali e dai canoni stretti in cui, da sempre, si muoveva. Altro elemento non da poco di cui tener conto per la grandezza di Kind of blue sono i musicisti eccezionali che Davis aveva “raggruppato” per l’occasione quali: il mitico John Coltrane al sax tenore, Bill Evans al piano, Julian “Cannoball” Adderlay al sax alto, Paul Chambers al basso e James Cobb alla batteria: praticamente tutti mostri sacri del proprio strumento. Inutile dire poi che, a parte gli aspetti essenziali appena evidenziati, quello che rende l’album veramente magico sono le emozioni che i suoi pezzi sanno regalare già al primo ascolto.

Si tratta di brani notturni, ma dal mood progressivamente sempre più rilassato, con un lato A che si apre con una regale So What dal ritmo inizialmente molto lento, con solo il piano e il basso, ma che accelera presto lasciando via via spazio a tutti gli altri strumenti. Serie di accordi uguali sullo sfondo si ripetono in modo ipnotico mentre gli assoli di Davis e Coltrane si alternano e danzano come ballerini in una piazza sotto i lampioni al chiaro di luna. Segue una ciondolante Freddie freeloader con l’ottimo Wynton Kelly al piano (unica comparsata nel disco) per tutta la prima parte, finché la tromba di Davis non entra a prendersi la scena. Si chiude con l’avvolgente e calda ballata Blue in green che, come il canto delle sirene di Scilla e Cariddi, riesce ormai da decenni a conquistare e rapire perdutamente chiunque “caschi nella mortale trappola” di volerla ascoltare almeno una volta. Celestiale.

Il lato B si apre con la lunga spirale melodica di Evans di All blues nella quale la batteria di Cobb gioca un ruolo fondamentale, tenendo il ritmo costante stile treno sui binari, mentre in superficie i “fiati degli dei” giocano il loro ruolo di prime donne. La conclusione dell’album è da urlo, con il capolavoro di Flamenco sketches: più che un brano, una suadente e infinita carezza (più di 9 minuti) che già da sola varrebbe il prezzo del biglietto. 

Almeno una volta nella vita (soprattutto in questi momenti duri che stiamo vivendo) anche chi non è esperto di jazz dovrebbe provare questa esperienza e lasciarsi trasportare dalla bellezza,ascoltando questo album, categoricamente dopo il tramonto e non più tardi dell’alba: sono quasi certo che non lo mollerebbe più molto facilmente.

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