Le dighe sono straordinari manufatti antropici. Non siamo certo l’unica specie vivente sul pianeta a costruire sbarramenti che trattengono o regimano le acque. E lo facciamo da sempre, cercando di scegliere siti idonei, progettandone la realizzazione, monitorandone lo stato e il funzionamento, traendone molteplici vantaggi.

Le dighe forniscono energia, permettono di regolare i flussi idrici per contenere le piene, sono riserve idriche importanti per agricoltura e allevamento. Ma esiste un rovescio della medaglia: una diga resta pur sempre un elemento estraneo alla dinamica naturale. È un oggetto che perturba il microclima, gli ecosistemi, i fenomeni geomorfologici, l’idrologia e i regimi idrici sotterranei esistenti, la dinamica delle coste anche a decine di chilometri dal luogo di imposta. La loro costruzione modifica lo stato tensionale delle rocce su cui grava l’infrastruttura e quella delle sponde. E non da ultimo, bisogna menzionare il fatto che collateralmente alla diga vengono realizzate altre strutture (strade, ponti, muri di contenimento) che contribuiscono ad accrescere l’impatto dell’opera sugli ambienti naturali.

Al di là degli aspetti ingegneristici e geologici, una diga ha bisogno di una progettazione fortemente multidisciplinare, in cui vengano considerati attentamente anche aspetti biologici, zoologici, microclimatici, stradali, sociali. Un bel problema, in cui la numerosità delle variabili in gioco e le incertezze nella previsione dell’impatto multi-sistemico dell’opera e delle sue potenziali vulnerabilità ad un insuccesso tecnico, economico, ecologico, non consentono mai di essere del tutto sicuri che le scelte operate siano effettivamente quelle ottimali.

Come spesso accade quando si considerano gli impatti umani sui sistemi socio-ecologici, bisogna tener conto contemporaneamente degli effetti certi o potenziali, valutarne quanto più efficacemente l’incidenza, e prendere decisioni sulla base di priorità definite in modo consapevole e trasparente con tutti coloro che verranno interessati dalla sua costruzione e che dovranno condividerne benefici ma anche svantaggi.

In termini ambientali, costruire una diga rappresenta sempre un dilemma, dal momento che anche l’ambiente interessato dall’opera deve essere annoverato, e giustamente, tra le variabili dipendenti. Infatti, esistono sempre effetti ecologici negativi nella sua realizzazione, che tuttavia vanno valutati e quantificati il più possibile unitamente agli effetti positivi che si spera di ottenere dalla realizzazione. Contestualizzare il manufatto è la chiave per cercare di affrontare il dilemma. Non si tratta di eseguire soltanto una fredda analisi costi-benefici, ma di inquadrare l’infrastruttura in un contesto ampio, che guardi anche al di là dell’ambito locale, sia da un punto di vista geo-ambientale che economico e geopolitico. La realizzazione di una diga è al tempo stesso un evento perturbativo ambientale e un fatto che incide sulla realtà socio-politica, a livello locale, nazionale fino a quello transnazionale.

In assoluto una diga non è né giusta né sbagliata, ma tale diventa in relazione al soddisfacimento delle priorità definite, che a loro volta dipendono dal contesto geografico, geologico, politico, ambientale, sociale, economico in cui essa va a collocarsi. E più la diga è grande, maggiori diventano le implicazioni tecnico-scientifiche e socio-politiche che ne accompagnano la progettazione, la realizzazione e la gestione.

La diga di Itaipù sul fiume Paranà, al confine tra Paraguay e Brasile, è lunga 7,7 km, ha un bacino di 29 miliardi di m³ di acqua ed è in grado di generare circa 14 gigawatt di energia idroelettrica. La sua realizzazione ha richiesto un accordo internazionale tra Paraguay, Brasile e Argentina per lo sfruttamento del fiume che le tre nazioni condividono, con il timore da parte degli argentini che in caso di conflitto militare con il Brasile la diga potrebbe essere utilizzata come arma ambientale per inondare Buenos Aires. Inoltre, la realizzazione della diga ha avuto notevoli impatti sociali e ambientali, comportando il trasferimento forzato di popolazioni indigene, senza che venissero risarcite, e la distruzione delle più estese cascate del mondo, quelle di Guairà.

Stessa storia per la diga delle Tre Gole sul fiume Azzurro in Cina, lunga 2,3 km, che ha un bacino di 22 miliardi di m³ di acqua e produce 22,5 gigawatt, la cui realizzazione ha richiesto il trasferimento coatto iniziale di quasi 1,5 milioni di persone, nonché la sommersione di città, villaggi e siti archeologici di grande rilevanza culturale a fronte della necessità di ridurre le piene che da sempre tormentano ampie aree meridionali del paese e di fornire energia rinnovabile per alimentare l’imponente crescita industriale ed economica cinese.

Ma in questo momento è La Grand Ethiopian Renaissance Dam, sul Nilo Azzuro in Etiopia, ad essere al centro dell’attenzione internazionale, per motivi sia tecnici che geopolitici. Anche in questo caso i numeri parlano chiaro: la sua importanza è fuori discussione. Lunga circa 1,8 km con una produzione stimata di 6,45 gigawatt ed un bacino di 74 miliardi di m3 di acqua, una volta terminata sarà la più grande diga del continente africano. L’energia idroelettrica prodotta potrà sostenere lo sviluppo economico etiope e il bacino della diga sarà utilizzato anche per la pesca e le attività turistiche. L’energia in eccesso sarà venduta alle nazioni vicine, la qual cosa richiederà la costruzione di giganteschi elettrodotti. È inevitabile che la costruzione di questa diga continui ad alimentare tensioni politiche tra Etiopia, Sudan ed Egitto. In particolare, gli egiziani temono la possibilità che la regolazione dei flussi a monte dell’impianto determini la riduzione degli afflussi a valle dell’opera, minacciando il loro approvvigionamento idrico. Resta sottinteso il timore che dietro la rivendicazione di diritti di sfruttamento di una geo-risorsa comune, come il fiume Nilo, si celi la velata accusa che la diga possa essere utilizzata dall’Etiopia come arma di pressione politica sulle nazioni vicine.

Non da ultimo, alcuni scienziati ed ingegneri si sono confrontati sulla tenuta strutturale dell’opera, esprimendo perplessità e preoccupazioni legate al fatto che la diga è costruita in un’area sismicamente attiva, situata nei pressi della Great Rift Valley, zona dove possono generarsi anche forti terremoti. Come riporta un recente articolo della rivista scientifica EOS dell’American Geophysical Union, un professore di geologia dell’Università del Cairo ha affermato che la diga sarebbe posizionata su una faglia e avrebbe difetti di progettazione tali da renderne possibile il collasso. Ha anche aggiunto che la enorme pressione esercitata dall’acqua dell’invaso sulle rocce del sottosuolo potrebbe favorire l’attivazione di faglie. Un altro geologo dell’Università del Colorado ha dichiarato che la diga si troverebbe a circa 500 chilometri dalle zone sismiche più pericolose della regione e che in ogni caso non possa escludersi una sismicità indotta dal riempimento dell’invaso. Agli aspetti sismici vanno aggiunte le preoccupazioni per le modifiche ai regimi pluviali e idrologici della regione a causa dei cambiamenti climatici, con ulteriori possibili conseguenze sui tassi di interrimento dell’invaso e delle pressioni occasionali o crescenti nel tempo delle acque immesse e dei sedimenti trasportati dal Nilo Azzurro.

È evidente come le questioni tecniche, scientifiche e politiche siano ormai talmente intrecciate e complesse da richiedere un accordo internazionale tra le nazioni direttamente interessate, tanto più urgente in tempi di cambiamenti climatici globali. Se energia e acqua sono da sempre beni fondamentali per garantire a una civiltà sviluppo e benessere, le accresciute capacità umane di controllarne la produzione e la gestione necessitano anche di cornici etiche di riferimento per evitare che sempre più spesso si trasformino in casus belli.

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