Grazie Ernesto
"Una vita, un'impresa". Ernesto Pellegrini, ex presidente dell'Inter e imprenditore ha creato una Onlus che fa mangiare i bisognosi a un euro.

"Una vita, un'impresa". Ernesto Pellegrini, ex presidente dell'Inter e imprenditore ha creato una Onlus che fa mangiare i bisognosi a un euro.
Sono un cultore della psicosomatica con pericolose estrinsecazioni nella poesia. Quando, sabato 31 maggio, a poche ore dalla finale di Champions League PSG-Inter, m’è arrivata la notizia della scomparsa di Ernesto Pellegrini, che dell’Inter fu presidente dal 1984 al 1995, amato di un amore reciproco, sopravvissuto ai decenni successivi, ai grandi acquisti e alle vittorie di Moratti, alla successiva internazionalizzazione, ai cinesi e adesso ai fondi americani, ecco, quando ho saputo che era deceduto, il mio primo pensiero è stata una premonizione: vuoi vedere che se n’è andato giusto in tempo per non vedere una debacle?
Non sono un profeta, i miei amici sanno che di previsioni non ne azzecco una. Però mi piace pensare che l’inconscio sia in grado di darci ordini, quasi che la nostra vera natura, tenuta sotto il tappetino da paure e perbenismi, quand’è il momento zampilli con la potenza di un geysel e detti le regole in ogni svolta della vita, anche in quella cruciale, nell’ultima. Del resto, le figlie di Enzo Biagi, intervistate dalla Rai subito dopo la morte del padre, al cui capezzale erano accorse in extremis, dichiararono: «Ci ha aspettate». Anche mio padre posso dire che mi aspettò. E mia nonna fece lo stesso con lui.
Comunque. Non sapremo mai se davvero il Grande Ernesto abbia inteso risparmiarsi lo spettacolo della sua Inter protagonista della figura più magra nella storia del calcio. Quel che sappiamo è che era un uomo dal cuore immenso. E mi dispiace non aver mai avuto occasione di conoscerlo. Lo avrei abbracciato e gli avrei detto grazie.
Vedete, non è affatto vero che volere è potere. Dirlo significa ingannare, in buona o malafede non importa, sempre di inganno si tratta. Se volere fosse potere saremmo tutti miliardari o quasi. La realtà è molto più triste: ciascuno fa quel che può, poi le cose vanno come vanno. Pellegrini ha sempre ripetuto che il suo segreto sono state tenacia e onestà, e non ho dubbi che così sia stato, ma ha spesso aggiunto di aver avuto fortuna. La parola “fortuna” echeggia sempre nelle parole dei grandi. Fateci caso: avete mai visto un vincitore sfortunato? Io no.
Be’, lui, da imprenditore di successo (si legga l’autobiografia Una vita un’impresa, uscita per Mondadori nel 2016 a cura di Domenico Lini), ne era più che consapevole, e da come s’è comportato sappiamo che non ha mai colpevolizzato chi è rimasto indietro. Al punto da dar vita nel 2014, tramite la sua fondazione Onlus, a un ristorante solidale dove i bisognosi trovano un pasto completo a un euro.
Un euro, avete letto bene. Non c’è errore. E per chi ha meno di 16 anni è gratis.
Dietro a questo nome c’è una storia struggente. Così si chiamava il lavorante che aveva vissuto nella cascina di Ernesto Pellegrini e che negli anni Sessanta, rimasto senza casa, morì di freddo in una baracca di legno. «Ruben non sono riuscito ad aiutarlo», disse Pellegrini all’apertura del ristorante. «Oggi vorrei, però, aiutare qualcuno dei tanti Ruben che, per una ragione o per l’altra, vivono il loro momento di difficoltà e disagio».
Viviamo in tempi irresoluti e vanamente competitivi. Tempi in cui si colpevolizza chi guadagna 100mila euro all’anno perché “sfigato” (giuro, pure questo m’è toccato leggere), in cui si confondono intelligenza e talento, così bollando da scemi quanti hanno talenti non profittevoli. Poi non lamentiamoci se i giovanissimi si ispirano agli influencer e soprattutto se da trentatré anni l’Italia è al palo, ma questo è un altro discorso.
Quel che conta è che il disagio ha sempre una componente più o meno grande di sfortuna, perciò andrebbe approcciato con rispetto e mai con critica. Ecco lo spirito che ha fatto di Ernesto Pellegrini un grandissimo, e che mi auguro innalzi il suo esempio sugli scudi della storia non solo dell’imprenditoria – dove peraltro ha espresso del genio, perché l’intuizione delle mense aziendali fu lui ad averla per primo – ma anche della società.
Aveva vent’anni e guadagnava 55mila lire al mese come contabile quando furono espropriati i terreni della cascina. Ruben era sempre stato lì, lavorando per varie generazioni della famiglia Pellegrini. A seguito dell’espropriazione fu costretto a sistemarsi in una baracca senza riscaldamento. «Mi si stringeva il cuore a vederlo in quelle condizioni», ricordava il futuro presidente dell’Inter, «e mi ero riproposto, appena le mie finanze, allora scarse, me lo avessero consentito, di procurargli un letto caldo. Purtroppo non ho fatto in tempo perché un giorno, uscendo dal lavoro, acquistai un giornale della sera con un titolo agghiacciante: ‘Barbone muore assiderato nella sua baracca’».
Da oltre dieci anni Ruben tramanda a futura memoria, sull’insegna del ristorante solidale, la volontà di Ernesto Pellegrini di essere d’aiuto. Con rispetto, e non è un dettaglio. Di mense per poveri è piena l’Italia, gestite con spirito di carità, necessarie e meritorie. Ma sono posti in cui i poveri si sentono poveri, per quanto trattati con gentilezza. Ruben invece è un luogo in cui i poveri si sentono al ristorante. Penso sia chiara la differenza. Offre un ambiente in cui sentirsi a proprio agio, come se si fosse a casa. Bandita la fretta, si può restare tutto il tempo che si vuole. «La nostra prospettiva», si legge nella presentazione, «è quella dello stare insieme a tavola, di un momento dedicato alle relazioni umane e sociali che da sempre caratterizzano il pasto come un’occasione di convivialità».
Il menù contempla due o più proposte, così da avvicinarsi all’idea del ristorante e dunque di normalità.
Non voglio aggiungere altro perché questa storia continua a inumidirmi gli occhi, anche dopo tanti anni. Esprimo solo un augurio: che se un paradiso esiste, Ernesto sia adesso, e per sempre, il più vicino possibile a Dio.