Il gruppo di ricerca indipendente Ippolita si occupa da molti anni, ormai, di informatica e di tecnologie da un punto di vista militante e libertario, come testimoniano le sue numerose pubblicazioni. La raccolta di testi recentemente uscita per le edizioni Agenzia X, Hacking del sé. Disertare il capitalismo del controllo, raccoglie alcune delle riflessioni più stimolanti prodotte dal collettivo negli ultimi anni.

copertina di "Hacking del sé" di Ippolita

I temi intorno a cui si articola il discorso sono eterogenei e danno la misura dell’approccio intersezionale del gruppo, che abbraccia esplicitamente le istanze di giustizia sociale transfemminista, decoloniale e antispecista, collegate fra loro dalla critica alla tecnologia dominante:

La mercificazione del vivente non passa solo attraverso le tecnologie riproduttive, lo sfruttamento animale, la manipolazione delle sementi e lo sfruttamento più o meno schiavile della manodopera, ma passa anche attraverso dispositivi tecnologici progettati per acquisire una delega sull’organizzazione sociale e cognitiva.

pp. 52-53.

Il filo conduttore è quello di un discorso tecnopolitico in grado di decostruire l’apparente neutralità/gratuità dei social network commerciali (e, in generale, delle tecnologie digitali che ormai percepiamo come naturali), e al tempo stesso di elaborare un pensiero costruttivo a partire dal concetto che dà il titolo al libro. Che cos’è, dunque, l’hacking del sè? A che cosa si oppone?

L’informatica del dominio

Il libro richiama a più riprese elementi di critica della narrazione salvifica dell’informatica proposta dalle istituzioni e dalle multinazionali elaborati dal collettivo negli anni (un utile compendio in tal senso è certamente Tecnologie del dominio. Lessico minimo di Autodifesa Digitale, 2017).

Per esempio, scopriamo in che modo il l’architettura e il design delle piattaforme social o degli smartphone sono pensate per indurre norme e comportamenti ben precisi, lasciando poco spazio alla libertà di espressione, alla creatività o alla condivisione collettiva di emozioni, istanze e riflessioni critiche, tramite dispositivi come quello della gamificazione o del default power, o della profilazione e della gestione dell’identità digitale. Concetti come questi, apparentemente tecnici, vengono illustrati in modo del tutto comprensibile, ma, soprattutto vengono inquadrati in una riflessione autenticamente filosofica sul senso di questo incessante processo di concentrazione di potere tecnologico.

Che cos’è che domina questo processo, chiede Ippolita? La norma strumentale, per cui siamo tutti oggetti utili al profitto. E tale norma è precedente alle stesse tecnologie digitali, dal punto di vista logico e storico. Prende la forma di una delega tecnica (il default power ne è una manifestazione eclatante) che è in realtà molto di più: è una delega sociale e politica. Per questo, le soluzioni per opporsi non possono mai essere meramente tecniche; al contrario, dovranno attingere alla critica politica. Non semplicemente tecnologie open al posto di tecnologie proprietarie, ma tecnologie conviviali.

Ippolita mette alla prova questo approccio in numerosi ambiti. Per non fare che un esempio, la crittografia. Contrariamente a quanto sostenuto da alcuni settori dell’ambiente cyberpunk, la crittografia non è la panacea di tutti i mali, e al tempo stesso non è il problema in sé e per sé. Il punto dirimente è invece la capacità di intessere un discorso politico sull’uso di una tecnologia pesante che può persino costituire una forma di suprematismo; la capacità di sostituire alla soluzione tecnica un lavoro politico collettivo sulla creazione di comunità basate sulla fiducia, sull’ecologia della comunicazione e su una cura di sé che non è mai inchiodata al livello individuale, ma al contrario implica sempre un’apertura all’altrə. Un discorso analogo può essere ed è fatto per l’apologia del P2P (peer-to-peer).

La cura di sé oggi

L’hacking del sé è dunque una pratica – o, meglio ancora, un’attitudine, un atteggiamento, una postura – che richiama l’idea foucaultiana di cura di sé e la riattiva per resistere al potere dell’informatica commerciale. Leggiamo direttamente come lo definisce Ippolita:

Per hacking del sé, ispirandoci ai lavori dell’ultimo Foucault, intendiamo un esercizio di cura del sé che inizia con il comprendere quale tipo di norma le megamacchine sono capaci di farci assumere, per capire come disinnescarla prima che la sua forza ci renda conformi e oppressi. Avere riguardo per il proprio corpo digitale, proteggerlo perché si emancipi dall’informatica commerciale, riconoscere l’importanza che ha nella nostra vita, significa fare un passo di consapevolezza tecnica e nel contempo di responsabilità etica verso noi stessi e verso la comunità.

p. 63

Pars destruens e pars construens sono qui ben lungi dall’ignorare quell’elemento fondamentale che è la corporeità. Se, per esempio, la gamificazione si basa sull’attivazione di precisi processi chimici nel corpo dell’utente, la resistenza alle tecnologie commerciali non potrà che rivalutare la funzione dei nostri corpi materiali. Il bersaglio critico, qui, è il transumanismo, definito a partire da un approccio transfemminista come “una propaganda che vede l’esperienza organica e la morte come un bug da fixare” e che insegue, in definitiva, il sogno dell’immortalità (tecnologica). Ad esso andrà contrapposta una postura che affonda le radici nella pedagogia hacker con la sua voglia di scoprire e di mettere le mani nei dispositivi senza il profitto come obiettivo.

E torniamo, quindi, alle tecnologie conviviali, espressione, non a caso, coniata da quell’Ivan Illich di cui Ippolita è oggi uno dei più fini interpreti. Queste non sono semplici strumenti alternativi o gratuiti, sono ben di più:

Sono un modo diverso di immaginare, fare e praticare le tecnologie, a misura di comunità. Un tipo di tecnologia non oppressiva che invece di promettere miracoli e produrre assoggettamento e asservimento, consente emancipazione e potenziamento ecosociale.

p. 62
collettivo ippolita

Si tratta insomma di dotarsi in primo luogo di strumenti di consapevolezza riguardo all’uso di oggetti apparentemente innocui, maneggevoli e gratuiti, per poi hackerare il proprio io digitale, e, con esso, le relazioni personali e politiche indotte dalle architetture di questi strumenti. Relazioni sempre più povere e frustranti a cui dobbiamo provare a sostituire relazioni autentiche e politicamente trasformative.

Non tutte le tecnologie del sé vanno in questa direzione. Ce ne vengono proposte continuamente di segno opposto, a partire da quelle di auto-promozione e potenziamento del sé, come il self branding. Se queste tecnologie ci spingono a potenziarci (in senso abilista, nota Ippolita), dobbiamo guardare decisamente altrove:

Al potenziamento preferiamo l’impoteramento e la misurazione sistematica dell’ego la lasciamo al patriarcato.

p. 139
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