Helmut Newton. Legacy, è la mostra ideata in occasione del centesimo anniversario della nascita del fotografo (Berlino, 1920 – Los Angeles, 2004) e posticipata a causa della pandemia.

Inaugurata il 18 ottobre, visitabile fino al 10 marzo 2024, la mostra sarà probabilmente destinata a bissare il successo dell’esposizione che l’aveva preceduta nel 2013, al Palazzo delle Esposizioni, Helmut Newton. White Women / Sleepless Nights / Big Nudes, esposizione che selezionava una bella raccolta di scatti estrapolati dai suoi primi tre volumi monografici: White Women del 1976, Sleepless Nights del 1978 e Big Nudes del 1981.

Il percorso espositivo ripercorre la vita, umana e professionale, di un uomo ricordato come l’autore di scatti che hanno fatto la storia della fotografia, apparsi nelle più importanti copertine di fashion magazine, arricchiti da un corpus di inediti che svela aspetti meno noti della sua opera. Sono circa 80 infatti le fotografie esposte per la prima volta in questa rassegna. A completare l’esposizione, le testimonianze prodotte dai materiali d’archivio come le stampe a contatto o le pubblicazioni speciali”.

Se l’opera di Newton è sempre stata ampiamente pubblicata, non necessariamente la selezione degli scatti, compiuta dalle redazioni, era finalizzata a esprimere in modo compiuto anche il mondo spirituale e artistico dell’artista che le aveva realizzate.

In mostra una storia da intepretare

Nelle immagini di questa mostra invece, è il fotografo stesso che definisce com’è e qual è la storia che vuole raccontare al suo pubblico. Infatti, l’occhio di Newton ha la capacità di scandagliare una realtà che, dietro alla suprema eleganza delle immagini, consente di intravedere un’ambiguità di fondo di cui erotismo e morte non sono che due aspetti della stessa ricerca di verità che si estende al di là di ogni convenzione.

Nel selezionare le fotografie per i libri di cui lui stesso è l’editore, Newton mette in sequenza, l’uno accanto all’altro, gli scatti realizzati per altre committenze con gli scatti realizzati liberamente per sé stesso, costruendo una storia in cui la ricerca dello stile, la scoperta del gesto elegante sottendono l’esistenza di una realtà ulteriore, di una vicenda che sta allo spettatore stesso di interpretare.

Sei capitoli cronologici raccontano l’evoluzione fotografica di Newton: dagli esordi degli anni Quaranta e Cinquanta in Australia fino agli ultimi anni di produzione, passando per gli anni Sessanta in Francia, gli anni Settanta negli Stati Uniti, gli Ottanta tra Monte Carlo e Los Angeles e i numerosi servizi in giro per il mondo degli anni Novanta”.

Il visitatore avrà la possibilità di entrare nel cuore del processo creativo per scoprire i segreti di immagini divenute parte della nostra memoria visiva e collettiva, come la serie Big Nudes che diventerà il suo libro di maggior successo”.

Le immagini di Newton, prevalentemente nudi femminili (anzi, donne vestite quasi esclusivamente di sole scarpe con tacchi a spillo), oltrepassano la limitata dimensione delle riviste fashion (Vogue, L’Uomo Vogue, Harper’s Bazaar, Elle, GQ, Vanity Fair, Max e Marie Claire), per le quali lui lavorò (dagli anni ’50 in poi), vivendo una vita propria, condivisa tra musei (il famoso They are coming fu esposto alla Biennale di Venezia) e l’immaginario collettivo, anche a più di trent’anni di distanza dalla loro produzione.

Prostituzione, volgarità, pornografia, sadomaso, umiliazione del corpo femminile o sua massima esaltazione: tutto si può dire a riguardo e nulla è mai stato rinnegato da suo stesso autore, che amava definirsi attratto dal cattivo gusto.

Qualunque cosa si possa pensare di lui, non si può non prendere atto dell’esistenza di uno stile Newton, che ha creato numerosi proseliti e che non può essere semplicemente ricondotto ad una volontà di sconvolgere i benpensanti dell’epoca, stuzzicando gli istinti più repressi della media-alta borghesia.

Così come non si può non ammettere che la donna Newton, incarnazione del maschile e femminile, miscuglio di eros e thanatos, astrazione e carnalità allo stesso tempo, incarna l’idea di un’emancipazione sicuramente impensabile sino ad allora. Ed è proprio sulla percezione e fruizione del corpo che Newton dimostra tutta la sua contemporaneità.

Osservando gli osservatori della mostra, risulta evidente, nella maggioranza dei casi, il rapido passaggio di fronte a quelle immagini, che non può essere collegato solo al malcelato imbarazzo nel sentirsi improvvisamente trasformati in voyeur.

Nell’approcciare una mostra fotografica non sentiamo la necessità di ricevere particolari informazioni a riguardo. La fotografia vive, per sua stessa natura, nell’immediato e senza filtri.

Eppure tanto ci sarebbe da chiedere e chiedersi. Molte delle immagini presenti alla mostra, così come alcune che non sono state incluse in essa, si nutrono della pittura dello stesso genere, alimentandola a sua volta, in un gioco di continui e divertenti rimandi.

Qualche esempio a caso. Nelle rotondità e nell’ambientazione del suo nudo berlinese non è difficile riconoscere il plasticismo sensuale di Tamara De Lempicka, anche se poi, nella posa, si strizza l’occhio, ancora una volta, alla Venere di Urbino di Tiziano.

Così come gli scandalosi scatti della serie Chateau d’Aunoy (1977) sono a metà strada tra l’ambiguo abbraccio rappresentato nella gouache di Egon Schiele e la violenza dell’iniziazione sessuale contenuta nella Lezione di chitarra di Balthius.

Ma osservate attentamente Bergstrom over Paris (1971): l’escamotage del viso riflesso nello specchio per permetterci di osservare una modella distesa e di spalle, da due diverse angolazioni, era stato utilizzato da Velasquez per la sua Venere allo specchio.

Newton doveva amare particolarmente questo dipinto per rievocarlo successivamente, e più esplicitamente, in un altro suo famoso scatto, intitolato appunto After Velasquez in my apartment (1981), in cui lo specchio viene ora ironicamente sostituito da uno schermo televisivo, offerto non più da un fanciullesco Cupido, ma da una languida modella.

Newton non descriveva sé stesso come un intellettuale. Eppure doveva essere ben consapevole delle sue capacità compositive per cimentarsi in un confronto quasi diretto con Las Meninas. In Self-portrait with June and model Newton ritrae sé stesso, in impermeabile aperto (versione molestatore), mentre scatta la fotografia di fronte ad uno specchio. 

Ora Michele Smargiassi, in un bell’articolo pubblicato da Repubblica, parla di

“una replica concettualmente perfetta”

del famoso quadro. Personalmente non parlerei di replica, bensì di una personale ed efficacissima reinterpretazione. Noi vediamo ciò che lui vede attraverso l’obiettivo, ma il vero scatto finisce con l’essere il riflesso nello specchio e ciò che lo circonda, anche dietro e lateralmente ad esso.

In questo modo egli ha la possibilità di includere, insieme al suo autoritratto (in cui prevale il mestiere sul suo volto, che infatti non vediamo) e al ritratto della modella (vista fronte-retro) anche un ulteriore ritratto, quello della moglie (che osserva la scena da una posizione arretrata rispetto allo specchio) e lo spazio esterno (una via di fuga nel caotico mondo esterno o, viceversa, una possibilità, per i passanti, di sbirciare all’interno di uno studio?).

Lo spazio tridimensionale è stato nettamente scandito in quattro settori (quello tra Newton e la modella, quello tra la modella e lo specchio, quello tra lo specchio e June, quello tra June e l’uscita) permettendo la penetrazione del nostro sguardo dalla posizione in cui si trovava Newton verso la quinta finale.

Non solo. Newton inserisce un altro elemento, che rende ulteriormente ambigua ed ampia la rappresentazione: sono quelle paia di gambe (immancabilmente sui vertiginosi tacchi a spillo), che si vedono quasi al centro della foto.

Esse vivono solo nel riflesso dello specchio, ma, dovendo necessariamente appartenere ad una modella posta alla sinistra di quella in posizione eretta, aprono lo spazio in questa direzione, bilanciando, con la sua assenza, la presenza di June sul versante diagonalmente opposto.

Chi era Helmut Newton

Helmut Newton, all’anagrafe Helmut Neustädter, nasce a Berlino nel 1920 da una benestante famiglia ebrea. A 12 anni dimostra familiarità con la macchina fotografica, tanto che a 16 lavora come apprendista dalla famosa fotografa di moda Yva, sperimentando i suoi primi autoritratti. Nel 1938 lascia la Germania a causa delle persecuzioni antisemite e, dopo un passaggio a Trieste, s’imbarca verso l’Australia dove apre un piccolo studio di fotografia che segnerà l’inizio della sua carriera.

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