La storia è maestra di vita. Così diceva Cicerone e così ci hanno sempre insegnato. Così come che senza memoria non c’è futuro. Sono cose che riguardano sia la vita individuale che collettiva. E in effetti il concetto penso lo abbiamo tutti più o meno ben stampato in mente fin dalla fanciullezza… chissà quante volte ci è stato detto “e ti serva da lezione!”.

Però poi la realtà è che l’apprendimento a partire dalle vicende storiche, siano esse individuali o collettive, non è proprio lineare con l’esperienza. Forse è questo che spinse Giovan Battista Vico (1668-1744) a parlare di corsi e ricorsi storici, come se la storia non fosse una freccia verso il futuro quanto piuttosto una spirale.

Stephen J. Gould (1941-2002) in La freccia del tempo, il ciclo del tempo: Mito e metafora nella scoperta del tempo geologico (Ed. Feltrinelli, 1989), un esaltante libro sulla scoperta del tempo geologico da parte dell’umanità, mette a confronto la visione biblica di un tempo lineare antropocentrico fatto di creazione (circa 6000 anni fa), di predestinazione (di homo sapiens, o almeno dei cristiani europei) e di una meta (il giorno del giudizio), con quella geologico-scientifica del tempo profondo (miliardi di anni) in cui la direzione è più spesso non più che un segmento di lunghissimi e complessi cicli di formazione e distruzione (come nella tettonica delle placche per oceani e catene montuose) o di speciazione, estinzione e palingenesi (per gli esseri viventi).

In realtà, la percezione che il tempo e la storia hanno sul progresso della specie umana non differisce molto da quella della visione biblica e quella della visione scientifica, come lo stesso Gould alla fine del libro finisce argutamente per evidenziare. Il metodo scientifico moderno è l’esempio più straordinario di come l’acquisizione continua e progressiva di conoscenze non possa che nascere da un processo di continui tentativi ed errori fino alla soluzione che apre la strada a ulteriori domande, tentativi, errori, soluzioni e così via verso magnifiche sorti e progressive, quasi predestinate all’uso ed al benessere dell’umanità (o parte di essa…).

Ed è proprio questa consapevolezza illuminista che ha reso la visione biblica e quella scientifica differenti solo in apparenza, ma a ben vedere invece così simili nell’offrire all’umanità (almeno quella dominante a trazione capitalista) un’ideologia antropocentrica di progresso in(de)finito, fatto di continui apprendimenti dalle lezioni pur dure del passato, siano esse in campo sociale, economico, tecnologico o scientifico.

E siamo così persuasi e pervasi da questa consapevolezza scientifica che ci è naturale crederlo anche per le vicende individuali. Salvo poi trovarci troppo spesso al punto di prima. Salvo poi chiederci come abbiamo fatto a ripetere ancora una volta quello stesso errore pur avendo già vissuto più volte vicende simili che ci avrebbero dovuto dare gli strumenti per capire, per comprendere e per apprendere, quindi evolvere.

Perseverare nell’errore

Errare humanum est, perseverare diabolicum. Sbagliare è umano, perseverare è diabolico, dice un altro ben noto aforisma latino. Se fosse vero, il perseverare nell’errore dovrebbe essere una rarità negli umani. Ma è così? Secondo i buddisti in realtà il perseverare nell’errore è il tipico tratto degli esseri umani. Si tratta di quella catena detta karma, che affonda nella Legge di causa ed effetto e che dunque richiede, per non perseverare negli errori, una trasformazione delle cause alla base delle proprie azioni. I buddisti dicono che solo quando gli umani si illuminano alla Legge di causa ed effetto allora sono in grado di allentare l’attaccamento all’avidità e all’egoismo e trasformare le cause delle loro azioni, quindi le conseguenze. E al momento direi che di illuminate e illuminati tra gli esseri umani ce ne siano ancora pochi, così anche le società, che di noi esseri umani sono composte, sembrano lontane dalla capacità di usare la storia come maestra.

Vi racconto allora una storia di perseveranza, non necessariamente nel senso migliore del termine.

L’eruzione sull’isola di La Palma

Il 19 settembre, dopo appena una settimana di terremoti, deformazione del suolo e aumento del degassamento, è iniziata, ed è ancora in corso, la spettacolare eruzione sull’isola di La Palma, la più occidentale dell’arcipelago vulcanico delle Canarie, più famose tra i turisti per Lanzarote e Tenerife.

L’eruzione di La Palma sta raccogliendo molta attenzione sui mezzi di informazione, non solo per il fascino che sempre i vulcani esercitano con le immagini potenti delle esplosioni e delle colate di lava, ma soprattutto perché questa è senz’altro l’eruzione che sta arrecando maggior danno alle comunità umane locali in territori europei da quando esistono i moderni sistemi di protezione civile.

Dall’inizio dell’eruzione più di seimila persone sono state evacuate dalla zona di esclusione (o zona rossa) e, all’interno di questa, migliaia di case sono state distrutte dall’avanzare della lava, insieme a insediamenti industriali e una grandissima quantità di aziende agricole, in maggioranza coltivazioni di banane.

Guardando la distribuzione dei terremoti, risultato della fratturazione delle rocce che accompagna la risalita del magma, pubblicata giornalmente dall’Instituto Geografico Nacional, si è capito da subito che la zona sorgente è molto profonda, tra i 20 e i 30 km, e che la velocità di risalita è stata molto rapida. I colleghi vulcanologi dell’Involcan, l’osservatorio vulcanologico delle Canarie, sono stati molto bravi a identificare con chiarezza i segnali dell’eruzione imminente, anche se c’è voluta una grande fortuna perché la bocca si aprisse poche centinaia di metri a monte delle zone abitate, perché nonostante l’allarme dei vulcanologi, l’evacuazione è stata ordinata dalle autorità solo dopo l’inizio dell’eruzione.

Ma la questione più rilevante a La Palma è legata all’insediamento umano. L’isola è un complesso di apparati vulcanici che arrivano a quasi 2500 metri di altezza e ripidamente scendono verso il mare. La parte a nord è la più antica e (relativamente) stabile, mentre la zona sud è una lunga cresta fatta di crateri allineati chiamata Cumbre Vieja, da cui centinaia di colate di lava si sono riversate verso il mare nel corso dell’Olocene (gli ultimi 10.000 anni). L’ultima eruzione prima di quella in corso era stata nel 1971. La precedente nel 1949, e quest’ultima praticamente nello stesso identico luogo di quella attuale. Molte altre si contano in epoca storica, ossia a partire dalla colonizzazione delle isole da parte degli spagnoli. Dunque, sull’isola la maggior parte delle persone adulte ha memoria personale di almeno una se non di due eruzioni e la conoscenza geologica e vulcanologica è approfondita, così come la disponibilità di reti di monitoraggio per la tempestiva identificazione di un’eruzione imminente.

Resilienza e profitto

Dato tutto questo, cosa c’era di inatteso nell’eruzione attuale? Delle due l’una: o le menti individuali e quelle collettive sono spavaldamente consapevoli del rischio a cui si sono sottoposte investendo denari e sentimenti nel popolamento della parte dell’isola dove maggiormente frequenti sono le eruzioni, oppure i 50 anni che ci separano dal 1971, o i 72 anni che ci separano da quella del 1949 sono stati sufficienti a dimenticare. Altro che historia magistra vitae! Considerando il più che comprensibile stato di disperazione delle persone che stanno perdendo case, lavoro e proprietà, la seconda, la dimenticanza, l’assenza di apprendimento, è quella più probabile. Dunque è utile interrogarsi su cosa (o meglio su quale causa consapevole o inconsapevole), ancora una volta, guidi questa strana prerogativa degli esseri umani a perseverare. La migliore delle ipotesi la chiamiamo resilienza, e a La Palma senz’altro gioca un ruolo la morfologia dolce della parte sud dell’isola e la buona esposizione. La peggiore è la spinta al profitto che porta, in un sistema di valori come il nostro, a ricercare il profitto anche a breve termine e quindi a prendere dei rischi anche in luoghi come dei vulcani attivi. Il fatto è che poi questi rischi solo in parte sono presi individualmente (dicevamo che nessuno a La Palma può non sapere del rischio vulcanico), ma diventano collettivi nel momento in cui la gestione del territorio diventa piano urbanistico e dunque destinazione d’uso del territorio, incentivi statali e quant’altro sia funzionale alla crescita del PIL.

Quando l’eruzione si fermerà, La Palma rinascerà e questa sarà resilienza. Lo sarà soprattutto se chi ci abita e ci lavora, e chi li rappresenta nelle amministrazioni, apprenderà la lezione e tornerà ad essere pienamente consapevole di vivere su un vulcano attivo, che così come dà, tutto può riprendersi in poco tempo. Si, perché non è detto che ci si debba ritirare dal rischio, ma è fondamentale che questa scelta sia in chiaro e consapevole per tutti, individui e leggi.

Così attendo insieme a tutti voi con trepidazione in questi giorni gli esiti della Cop26 (ventiseiesima Conferenza delle Parti) da cui tanto dipende del futuro del nostro pianeta, nella speranza che stavolta il gioco del clima valga la candela di un cambiamento sostanziale e che la storia, almeno per una volta, ci sia maestra.

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