Colpevole. Colpevole. Colpevole.

Tre capi d’imputazione. Tre sentenze che bucano il silenzio in cui pregiudizi, discriminazioni e stereotipi si perpetuano negli Stati Uniti e nel mondo.

Omicidio di secondo grado. Omicidio di terzo grado. Omicidio colposo.

Dietro quel I cant’breathe non c’è solo un ginocchio che impedisce di respirare George Floyd, ma il gusto deviato di un uomo bianco armato. In divisa. Un uomo che detiene il potere, e se ne inebria per 9 interminabili minuti e 29 secondi mentre ascolta la vita di un omone afroamericano spegnersi lentamente sotto il peso di secoli di storia.

Una storia che va avanti dalla Guerra di Secessione, e che nel più recente 1999 uccideva con 41 proiettili uno studente guineano, Amadou Diallo, disarmato, colpevole di abitare nel Bronx e di dare le spalle ad alcuni agenti di pattuglia mentre cercava le chiavi di casa nelle sue tasche davanti alla porta d’ingresso. Per la giuria del tempo quei 41 proiettili esplosi contro un ragazzo inerme e disarmato furono solo un “terribile incidente” e alle accuse di omicidio di secondo grado e comportamento pericoloso risposero con: Innocenti. Innocenti.

La discriminazione dei carnefici in divisa

La lista degli afroamericani uccisi per mano di poliziotti bianchi negli stati Uniti è lunghissima, così come infinita è la lista di poliziotti bianchi giudicati non colpevoli per omicidi a sfondo razziale. George Floyd dunque non è l’unico afroamericano ucciso a sangue freddo dalla polizia né purtroppo sarà l’ultimo visto che a soli due giorni da una sentenza storica negli Usa alcuni agenti uccidono in strada una ragazza di 15 anni in Ohio e un uomo di 40 in North Carolina.

Solo dal primo gennaio 2015 al 30 maggio 2020 negli Usa sono morte 5.338 persone dopo essere state fermate dagli agenti di polizia. 1.254 erano neri e 2.385 bianchi. Ma negli Stati Uniti gli afroamericani sono una minoranza di circa 42 milioni. A conti fatti, nei confronti ravvicinati con la pubblica sicurezza solo negli ultimi cinque anni, sono morti 30 neri ogni milione di abitanti rispetto ai 12 per milione di popolazione bianca (197 milioni circa). Ogni numero che compone quel triste totale ha la sua storia. Ogni carnefice in divisa la sua impunità.  

Vista da qui questa storia, che va avanti dal giorno in cui Rosa Parks (1955) a Montgomery si rifiutò di cedere il posto a un bianco su un autobus di linea, non si può che guardarla con occhi diversi: Martin Luther King; Malcom X e il movimento delle Black Panthers. Una lotta per la parità dei diritti, per la fine di una segregazione perpetua, entrata a pieno titolo nel ‘900 sotto spoglie più democratiche con l’appellativo: discriminazione.  

Detto in una parola il diritto di esistere come minoranza etnica.

Il diritto ad avere lo stesso accesso al mercato del lavoro; all’educazione scolastica; all’assistenza sanitaria; all’abitare in una casa dignitosa e in quartieri sicuri privi di spaccio e violenze, svuotati da armi e gang criminali. La fine cioè dei ghetti strategicamente costruiti ai margini delle città economiche, dove da bianco e privo di mezzi, afroamericano, latino, appartenente a rom e sinti, migrante economico, bracciante agricolo…“subalterno” per citare Antonio Gramsci e “oppresso” per riprendere Paulo Freire sei destinato a vivere e ad esistere fino all’ultimo respiro che hai in corpo imprigionato in una specie di casta invisibile e impenetrabile.   

I can’t breathe diventa allora molto più delle ultime parole pronunciate da George Floyd.
Sembra il grido di soffocamento di intere generazioni schiacciate in ogni parte del mondo. In un sistema che si ripete all’infinito e che adesso anche la pandemia alimenta allargando i confini dei ghetti. Ingrossando le fila degli oppressi.

Fred Hampton, vice presidente del partito delle pantere nere dell’Illinois, freddato a soli 21 anni dall’Fbi questo l’aveva capito tanto da creare negli ultimi anni di vita la coalizione arcobaleno (Judas and the black Messiah) perché la questione allora come oggi non è neri contro bianchi ma l’immortale discriminazione di classe: ricchi contro poveri. Ghetti contro quartieri residenziali. “Come possono i nostri bambini imparare qualcosa, quando la maggior parte di loro ha lo stomaco vuoto?”. Come possono i figli dare peso al futuro e pensare all’educazione scolastica se i genitori sono disoccupati, licenziati, sottopagati o peggio lavoratori senza contratto né diritti, schiacciati spesso da affitti esorbitanti e sfratti in attesa di sussidi insufficienti o inesistenti?

Non ho mai avuto la mia età

“Questa è la storia di un ragazzo che non ha mai avuto la sua età. Non ha neanche un nome, e per comodità lo chiameremo Zero. In realtà non ha mai avuto nulla. Perché la sua è una vita tutta in sottrazione, che ha sempre tolto e ha dato poco. Zero non ha cittadinanza, non ha madre, non ha soldi, e non si concede neanche il lusso di pensare al futuro. Zero ha dovuto capire in fretta che certe cose non si possono chiedere ai genitori, che ciò che è giusto non è patrimonio di tutti. Perché la vita non ha nessun obbligo di darti quello che credi di meritare e non lo ha nemmeno chi ti ha messo al mondo”.

Ghetti contro quartieri residenziali. Eravamo rimasti qui.

Liberamente tratta dal libro “Non ho mai avuto la mia età” di Antonio Dikele DiStefano è sbarcata su Netflix la prima stagione di Zero, una serie prodotta da fabula Pictures e Red Joint film.

Per la prima volta una serie italiana racconta la vita nel Barrio di un gruppo di amici, tutti afroitaliani, nati nella capitale del business e della moda accanto alla Milano da bere, via Monte Napoleone e la Borsa. Il protagonista è Zero, un ragazzo che disegna fumetti manga e fa il rider e che per uno strano scherzo del destino ha il potere dell’invisibilità. Potere che metterà a disposizione del gruppo per salvare il quartiere dove è nato dalla speculazione immobiliare che dal dopo guerra affligge l’Italia da Nord a Sud, da Est a Ovest. Spingere gli ultimi sempre più ai margini o fuori da quei margini invisibili e sottili che delimitano una città. Trasformare un ghetto in un quartiere residenziale e ricco usando il termine democratico: “riqualificazione urbanistica”.

Case di lusso, banche e uffici al posto di piazze, biblioteche, scuole, campi di calcio e luoghi di aggregazione e cultura. Per ottenere l’obiettivo la spietata immobiliare Sirena si avvale di una banda criminale di latino americani che si adopera allo spaccio nel quartiere, intimidazioni, racket, omicidi e continui atti vandalici.

I più cambieranno quartiere in cerca di serenità e svenderanno case e negozi costati una vita di sacrifici. Agli altri penseranno le gang. A digitare Barrio su google, al termine degli otto episodi di Zero, il primo risultato va dritto al link “Barrio Milano: ascesa e crollo delle gang latino americane” docu – serie di Sky Atlantic per il ciclo Il Racconto del Reale.

L’immortale discriminazione di classe.

Gli anni di Zero, sono duri, sono anni che hanno il sapore della povertà e della periferia. Ma sono anche anni passati ad attraversare strade in bici, con il cellulare attaccato a una cassa per permettere agli altri di sentire la musica. In piedi sui pedali, a ridere in mezzo alla via. Pomeriggi a giocare a pallone, a sperimentare il sesso e a bruciarsi per amore. Sono anni passati in quartiere consapevoli però che l’unico modo per salvarsi e garantirsi un futuro è andare via perché se nuoti nel fango, alla fine ti sporchi. Ma quello che c’è fuori fa paura. Ci sono gli sguardi indiscreti sui bus, le persone che tengono più stretta la borsa quando ci si avvicina, le ragazze che aumentano il passo e cambiano strada quando ti incontrano. C’è un Paese che non ti riconosce, gente che non si ricorda che essere italiani non è un merito ma un diritto. Fuori c’è la frase che ti ripeteva sempre la mamma e che ti rimbomba in testa “i bianchi nei neri ci vedono sempre qualcosa di cattivo”.

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