L’occupazione in Italia cresce. A gennaio, ha reso noto l’Istat, il numero degli inattivi è calato di 146 mila unità, il che, unitamente al contemporaneo e corrispondente aumento degli occupati (più 145mila unità) ha portato il tasso complessivo di impiego al lavoro, al livello del 62,8 per cento.

Si tratta dell’indicatore più alto registrato dal 2004, anno in cui è cominciata la catalogazione delle serie storiche. E’ un dato molto positivo, che è stato giustamente sottolineato dal governo.

Lavoro, i dati positivi

Anche altri indicatori sono positivi: il tasso di disoccupazione, cioè il rapporto tra le persone in cerca di occupazione e le corrispondenti forze lavoro della popolazione attiva, scende al 6,3 per cento e quello giovanile al 18,7 per cento.

Il tasso di inattività, cioè il rapporto tra le persone non appartenenti alle forze di lavoro (anziani, adolescenti) e la corrispondente popolazione di riferimento cala al 32,9 per cento. Tutto bene, dunque? Non proprio. Perchè il diavolo mette la coda in questi numeri facendo lampeggiare un altro indicatore, che qualche serio allarme lo dà. A parte il fatto che questa ripresa dell’occupazione non si traduce né sulla crescita del Pil (che anzi le stime dicono rallentare) né sulla produttività e nemmeno sui consumi, deve far riflettere il fatto che negli ultimi 12 mesi i nuovi occupati sono soprattutto over 50: di 513mila posti di lavoro in più contabilizzati da gennaio 2024 a gennaio 2025 ben 481mila sono relative a persone con più di 50 anni.

I lavoratori anziani sono ancora i più richiesti

E questo significa due cose. Che i lavoratori più anziani sono ancora i più richiesti, soprattutto con contratti a tempo determinato, grazie all’esperienza maturata. E che i giovani preferiscono cercare fuori dall’Italia opportunità di crescita economica e professionale maggiori di quanto sia offerta in casa propria.

Che conseguenze comporta questo circolo vizioso?. Intanto che la permanenza sul mercato del lavoro dei più anziani non apre le porte ai giovani più disponibili ad accettare le condizioni di lavoro, il che, unito alla crisi demografica, comporta uno squilibrio nel rapporto di contribuzione previdenziale complessiva del Paese. Poi che c’è poco trasferimento di competenze tra i più esperti e i nuovi arrivati, con l’effetto di trattenere sempre più a lungo in fabbrica, in magazzino, in ufficio o sul cantiere manodopera di lungo corso, spesso con dei rischi per la salute dei lavoratori stessi.

Questa frattura compromette la creazione di una dinamica virtuosa, dove il trasferimento di competenze e la specializzazione alimentano una crescita di un lavoro di qualità al posto di uno recuperato all’ultimo momento e spesso privo di alcuna esperienza nel campo. Insomma: i datori di lavoro cercano di trattenere gli anziani; i giovani se ne vanno in cerca di migliori opportunità; i nuovi assunti sono spesso scelti in base all’emergenza, e non garantiscono la qualità che è invece necessaria per rimanere competitivi nel settore. Così la produttività non aumenta, e gli stipendi seguono lo stesso trend, facendo ripetere all’infinito il circolo nefasto.

Ma quali sono i lavori che mancano in Italia?.L’ultima stima elaborata da Uniocamere ci spiega che al primo posto delle occupazioni ricercate e non trovate dagli imprenditori ci sono gli ingegneri, cosa sorprendente se si pensa che le facoltà universitarie italiane sono quelle con più studenti all’attivo: evidentemente preferiscono accettare mansioni diverse oppure vanno all’estero dove sono pagati ben di più.

Poi mancano gli insegnanti di scuola primaria e dell’infanzia. Sul fronte tecnico e dei servizi cadono le vuoto le ricerche di addetti alla ristorazione, operai specializzati, i saldatori, i carpentieri, operatori della logistica e delle aree magazzino. L’amara verità è che il Paese si sta svuotando, perché è poco attrattivo. Poche prospettive di crescita e stipendi bassi. E al momento non si vedono, al di là di freddi numeri dell’Istat, segnali di cambiamento

Condividi: