Scrivi Idles e leggi hype. Impossibile venire a capo del culto che si è generato attorno a questa band di Bristol. E’ uno di quei gruppi che si muove in sordina. Con ogni disco compiono un piccolo passo avanti. Niente di esagerato. Fanno quel movimento impercettibile che sventra le montagne. Ultra Mono è intenso art punk in salsa post-hardcore addobbato a festa. Ma cosa ci vuole, di norma, per rendere un party indimenticabile? Sicuramente degli invitati. Fortuna per loro, i cinque ragazzotti inglesi hanno tanti amici: David Yow (The Jesus Lizard), Warren Ellis (Nick Cave And The Bad Seeds), Jamie Cullum, Jehnny Beth (Savages) e Colin Webster. Amici di una certa risma, direi.
L’antipasto è l’inno War, un brano contro la guerra da cantare con la bandiera bianca ben issata. Mettete dei fiori nei vostri cannoni, insomma. La voce di Joe Talbot, più delirante che mai, abbandona la comfort zone delle spoken words solo nel ritornello. Il resto è pazzia. Restando in tema, possiamo osservare come la band perda completamente la bussola sul finire di Grounds, in cui si sente come picchiano forte le dita di Adam Devonshire sulle corde del basso e come esca dai ranghi il violino della guest star Warren Ellis. Per non dare subito in pasto la portata principale, gli Idles hanno centellinato nelle scorse settimane alcuni singoli per predisporci al banchetto definitivo. Uno di questi è Mr. Motivator, il cui testo centrifuga una caterva di icone pop, come Lebron James, Conor McGregor e John Wayne, e le colloca all’interno di una scrittura dissennata. Anxiety è un vortice anarchico che se ne frega della forma canzone, fatica a mantenere un tempo stabile e si sgonfia solo dopo aver dato sfogo alle turbe di Joe e David Yow. Ammirevole come l’intro di pianoforte suonato da Jamie Cullum ci prenda per i fondelli in Kill Them With Kindness: esauriti quei trenta secondi la batteria di Jon Beavis prende a martellare un ritmo che varierà poco nel corso della composizione, mentre la voce non si risparmia, suddividendosi in abbai (“Arf arf arf arf, said the puppy to the snake”) e rantolii. Come uccidere con poca o inesistente gentilezza.
Torna in auge il basso in Model Village, prendendo a girare vertiginosamente, contrastato dalle chitarre dissonanti di Mark Bowen e Lee Kiernan, ma invece di porgli un freno, queste gli si aggrappano come se fosse una boa oscillante nel mare in burrasca. Il superstite Joe Talbot trova pane per i suoi denti mentre reclama il suo spazio nella pista da ballo nei confronti di Jehnny Beth e, mettendosi muso contro muso, i due non se le mandano certo a dire (Ne Touche Pas Moi). Interviene in coro la famiglia Idles al completo (Carcinogenic), e anche se la rissa è scongiurata, Adam deve imporre nuovamente la sua, con la complicità dei tamburi di Jon, buttando ulteriore benzina sul fuoco (Reigns). Da una battaglia cruenta si passa a parlare di sentimenti nobili in The Lover (“Love is like a freeway”, l’amore è come un’autostrada), anche se l’argomento è affrontato come sempre a viso aperto e analizzato dalla prospettiva distorta della band, intenta a fingere di soddisfare gli haters per poi sbattergli in faccia il loro veemente disappunto (“I want to cater for the haters. Eat Shit!”)
Tutte le crepe e le disarmonie vengono sigillate da una traccia ricca di un pathos decadente come l’inusuale A Hymn, che non ci fa sentire spaesati dal cambio di direzione, ma ci mostra, se ce ne fosse ancora bisogno, come questa sia l’ennesima espressione del potenziale del quintetto britannico.
Il cucciolo che guaiva timido al serpente poco fa, adesso mostra le zanne intrise di sangue, pronto a sbranare chi vuole soffiargli l’osso da sotto il naso. Avvicinatevi senza esitare ad Ultra Mono. Forse scorgerete una coda pelosa scodinzolante. Se così non fosse preparatevi a scappare.