Incontriamo Paolo Orlandelli, stimato regista di temi civili scomodi – indimenticabile, tra tutti, il tuo lavoro sugli assassinii in Vaticano – raccontaci qualcosa sul perché e sul come hai scelto di scrivere su Dell’Utri…
In realtà, molti argomenti che ho trattato, tra i quali l’assassinio delle guardie svizzere in Vaticano nel 1998, il caso dell’allievo paracadutista Emanuele Scieri, rimasto vittima di un atto di nonnismo nel 1999, così come il processo Dell’Utri, provengono dalle pubblicazioni della casa editrice Kaos di Milano, che pubblica dossier sui casi nazionali più scottanti. Altri argomenti, come la pedofilia nella chiesa cattolica o il G8 di Genova, hanno attinto da altre fonti, sempre in risposta a un mio desiderio di approfondimento e di denuncia che deriva da una difficoltà a sopportare determinate ingiustizie in un mondo oramai informato su tutto ma ancora supino di fronte a logiche omertose e antidemocratiche. Il processo Dell’Utri parla dei rapporti tra la mafia e Silvio Berlusconi. Siccome per un certo periodo ho temuto che avremmo vissuto per sempre sotto un governo colluso con la mafia, ho cercato di spiegare come fosse nato questo fenomeno.

C’è poi il Paolo letterario, che in questa stagione si concentra – per il Teatro di documenti – particolarmente su Oscar Wilde: quali aspetti di questo scrittore contrastato ti hanno affascinato e come li hai affrontati?
Su Wilde lavoro da molto tempo nell’ambito della traduzione e della pubblicazione, anche qui in un certo senso con attenzione all’aspetto umano e sociale, infatti sono partito dalla traduzione dei suoi tre processi. Quest’anno porto in scena la sua esperienza del carcere, che si è tradotta per lui in una mirabile metamorfosi interiore, e un dialogo a distanza con il suo favorito Bosie Douglas, il quale ha pubblicato un’autobiografia nella quale risponde alle accuse mosse contro di lui da Wilde nel De Profundis. Wilde è finito in carcere per una legge che puniva l’omosessualità commessa in privato tra maschi consenzienti (solo maschi!) e che è stata abrogata in Inghilterra solo nel 1967, ma la tragedia era scritta nel suo destino e fu lui a querelare il padre del suo giovane amico innescando il meccanismo che lo rovinò. Ovviamente Wilde è tra i migliori commediografi al mondo, ma anche la sua vita fu una parabola che ha molto da insegnare. Il fatto di essere morto giovane e per gli effetti di una legge ingiusta, me lo rende caro e produce in me il desiderio di coltivare la sua immagine.

Nella tua attività di regista ti impegni anche molto ad organizzare corsi e seminari: chi studia oggi teatro e cosa cerca?
Da sempre ho avuto la passione per l’insegnamento. Con una buona dose di presunzione, affermo che questa passione nasce da esperienze terribili che ho vissuto come allievo e che ho voluto riscattare. In Italia non vi è né la cultura e nemmeno la formazione all’insegnamento, una lacuna gravissima che determina un panorama selvaggio in cui si può trovare di tutto. Corsi e laboratori sono per noi occasione di sperimentazione, mentre per gli allievi sono occasione di praticare il gioco più bello e antico del mondo: il travestimento. Bisogna ammettere che i corsi costituiscono un indotto importante ma sono anche la prova del fatto che il teatro è sentito da una larga fascia della società come un’esperienza fondamentale.

Vorrei una tua riflessione personale sul teatro come arte, come lavoro e come hobby, considerando anche il dibattito che si è svolto sul tema in questi mesi.
Il teatro è un’arte e chi sente questa vocazione, cerca di farne un mestiere di cui vivere, spesso senza riuscirci. Molto è cambiato dopo la crisi economica mondiale del 2007. Prima di allora si trattava di una professione piacevole e remunerativa, oggi è certamente una scelta che implica difficoltà e privazioni. Si tratta di un problema indubbiamente politico, riflesso di un paese che non apprezza e non promuove l’arte e la cultura contemporanee. Da noi esistono solo i monumenti e i grandi artisti del passato. Anche in teatro si rappresentano nel teatro ufficiale soprattutto gli autori classici. Ecco dunque che la ricerca teatrale diventa, purtroppo, un hobby, che porta i professionisti del settore a fare sacrifici enormi e a realizzare i propri progetti nella quasi totale solitudine. Vi è stato anche un imbarbarimento dei gusti del pubblico, che la televisione commerciale ha abituato ad un consumo di superficialità mista a pornografia. Ci vorrà molto tempo prima che l’Italia torni al prestigio culturale che la contraddistingueva fino agli anni ’60, e non è detto che ciò avverrà.

Tu collabori anche con Maltauro e Fiorini in uno spazio storico di Roma per la sua attività sempre innovativa, spazio T: come avete reagito al covid e che tipo di risposta avete incontrato?
Abbiamo adattato le nostre proposte alle restrizioni previste dai decreti di sicurezza, ovvero la sanificazione degli ambienti e il distanziamento. Portiamo in scena monologhi o dialoghi di venti minuti che ripetiamo ogni trenta minuti facendo entrare massimo 15 persone per volta. Anche i saggi degli allievi vengono contenuti nei 40 minuti e ripetuti due volte al giorno. Naturalmente, gestendo un piccolo spazio, ci è più facile controllare il flusso degli spettatori, diverso è il problema dei grandi teatri che non possono reggere la loro economia su un ristretto numero di fruitori.

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