Nella lunga carriera di Robert Redford, recentemente scomparso, c’è un film non molto conosciuto al grande pubblico. Si tratta de Il candidato, per la regia di Michael Ritchie, uscito nelle sale nel 1972. Proprio l’anno del Watergate, lo scandalo legato alle intercettazioni nella sede del Comitato nazionale dei democratici a Washington da parte di alcune spie in qualche modo legate ai repubblicani, che portò poi alle dimissioni del presidente Richard Nixon. Guarda caso, proprio il tema di un altro film di Robert Redford, di qualche anno dopo, Tutti gli uomini del presidente, una pellicola invece di grande successo che lo vide protagonista assieme a Dustin Hoffman.

Ma torniamo a “Il candidato” del 1972.

Redford in un film interessante
per due motivi

Il primo è legato alle attenzioni dello stesso Redford per le tematiche sociali, soprattutto quelle ambientali. Si è parlato spesso, nella politica americana di quegli anni, di una possibile candidatura diretta dell’attore americano a un qualche incarico di prestigio, non da ultimo alle stesse primarie per la figura più alta, quella del Presidente degli Stati Uniti. L’eventuale partecipazione di Redford è sempre stata ventilata come una possibilità di “discesa in campo” nello schieramento dei Democratici, quasi a far da contraltare alla discesa di in campo – ma per i Repubblicani – di un altro grande attore di quel periodo, ovvero quel Ronald Reagan divenuto poi il 40° presidente statunitense agli inizi degli anni ‘80.

Ma alla fine, Redford non si è fatto mai sedurre dalle sirene della politica e ha orientato le sue idee verso la dimensione dell’impegno teorico e delle scelte cinematografiche: prima fra tutte, la fondazione del Sundance Istitute che assunse poi la direzione artistica del Sundance Film Festival, divenuto famoso a livello internazionale per la sua attività finalizzata al sostegno del lavoro dei cineasti indipendenti.

Nel film “Il candidato”, Robert Redford veste i panni di un giovane avvocato idealista, di nome Bill McKay che viene convinto dai democratici a partecipare alle elezioni per un posto nella corsa al Senato della California. In realtà, i sondaggi danno McKay già per sconfitto di fronte al suo avversario repubblicano, lo scaltro ed esperto Crocker Jarmon.

Eppure il film mostra lungo tutte le sue scene la lenta ma inesorabile conquista di consensi da parte di McKay. Il giovane, infatti, parla con gli operai all’’uscita delle fabbriche, si reca lungo i litorali inquinati dal petrolio per contestare le politiche di sfruttamento delle compagnie industriali, si mostra aperto a tutte le problematiche dei diritti civili e delle minoranze, contesta i disboscamenti incontrollati che favoriscono lo sviluppo di incendi, insomma diventa il testimonial di quella “ideologia liberal” degli anni Settanta che è sempre stato un marchio indentitario del Partito Democratico.

Ma gli ideali di McKay presto lasciano il posto alle dinamiche del potere e alle logiche del compromesso, enfatizzate da una campagna elettorale e pubblicitaria che anticiperà come modi e forme quelle caratteristiche della comunicazione televisiva degli anni Ottanta per cui anche un candidato diventa un prodotto da vendere.

La parabola discendente di McKay si conclude con l’inaspettata vittoria elettorale e con la battuta finale dell’ultima scena del film: uno spaesato Robert Redford, appena giunta la notizia del suo successo politico, chiede con estremo scetticismo a Marvin Lucas, il capo della sua campagna pubblicitaria:

“E adesso cosa facciamo?”

E qui arriviamo al secondo motivo per cui questo film, a più di cinquant’anni dalla sua uscita, si presenta ai nostri giorni ancora interessante. La politica, nonostante sia del tutto cambiato il mondo attorno a noi, è rimasta sempre la stessa, cioè fondamentalmente disonesta, anche nei confronti di chi, all’inizio, vi vuole prendere parte solo perché animato da grandi ideali. Le logiche del potere corrompono anche gli spiriti più puri con tale spregiudicatezza che agli elettori non resta che il volto sorridente – e bello, come quello di Robert Redford – del vincitore delle elezioni. Nient’altro.

Alla faccia degli ideali propugnati o di quali siano le reali intenzioni di chi si è presentato come “candidato” durante la campagna elettorale. Quello che conta è solo l’arida conquista del potere politico.

E in un momento come il nostro, con una tornata di appuntamenti di elezioni regionali italiane di grande importanza, un film come “Il candidato” aggiunge a noi “sprovveduti elettori” un elemento di riflessione in più. Non solo come ulteriore occasione per ricordare il grande attore americano.

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