Sono già trascorsi cent’anni dalla nascita di uno dei più discussi e dotati intellettuali italiani, il cui pensiero ci accompagna ancor oggi: Pier Paolo Pasolini. E non basta ricordarlo il giorno della sua nascita, perché Pasolini è per sempre.

E allora ciò che mi interessa ora è ripercorrere i motivi dell’avvicinamento del poeta bolognese allo strumento cinematografico e la sua nuova visione di cinema.

Se già nel 1954 collabora alla sceneggiatura del film di Mario Soldati La donna del fiume, è solo più tardi, nel 1961, con la sua prima pellicola, Accattone, che l’esigenza di cimentarsi dietro alla macchina da presa diventa più urgente.

Pasolini sente la necessità di rivolgere la sua attenzione alla macchina da presa per avvicinarsi alla realtà. Questo suo bisogno è raccontato molto bene in alcune sue interviste contenute in un documentario di Rainews, un autoritratto inedito costruito attraverso i materiali di archivio custoditi da Rai Teche: Pasolini. Il corpo la voce. Ed è in questo documentario che Pasolini chiarisce il suo punto di vista:

” ..Facendo il cinema riproduco la realtà, quindi sono immensamente vicino a questo primo linguaggio umano, che è l’azione dell’uomo che si rappresenta nella vita.”

In uno dei saggi contenuti nella raccolta Empirismo eretico il poeta ricorda come:

“In realtà noi il cinema lo facciamo vivendo, cioè esistendo praticamente, cioè agendo. L’intera vita, nel complesso delle sue azioni, è un cinema naturale.. – e ancora – il film si potrebbe definire parola senza lingua: infatti i vari film per essere compresi non rimandano al cinema, ma alla realtà stessa”.

Se la letteratura prevede il simbolo come medium per rappresentare la realtà, il cinema la ripropone attraverso la realtà medesima.

Se realtà e cinema coincidono, le tecniche per esprimere la genuinità del momento sono il piano sequenza, l’uso di attori non professionisti, la luce naturale e il tentativo di fondare un cinema di poesia.

Ma che cosa è il cinema di poesia a cui allude Pasolini? Ce lo ricorda il saggio Il Cinema di Poesia contenuto sempre in Empirismo eretico:

Il film che si vede è una soggettiva libera indiretta… in sostanza il regista adotta la visione distorta, soggettiva, privata del protagonista, la prima caratteristica di questi segni […] consiste in quel nel fenomeno che normalmente e banalmente viene definito dagli addetti ai lavori con la frase: “Far sentire la macchina!”.

Pasolini tenta di riscrivere una sua idea di cinema cimentandosi da libero battitore, senza pregiudizi di sorta. Il gusto estetico del poeta è di origine figurativa, proviene dalla pittura come testimoniano, tra gli altri, i diversi lungo e medio metraggi (Accattone, La ricotta).

Il suo cinema, procedendo con gli anni, si trasforma e diventa sempre più radicale, più personale, proseguendo l’attacco alla morale borghese e alla società dei consumi.

La volontà e l’emergenza di esprimersi rendono la macchina da presa il mezzo più immediato per esprimersi, il poeta bolognese però tenterà anche di definire e di teorizzare una vera e propria filosofia del cinema che si confronterà soprattutto con la semiologia del cinema, che si sviluppa e prende forma a metà degli anni ’60 con gli scritti di Roland Jakobson, Roland Barthes e il suo allievo Christian Metz.

Nessuno come il poeta delle Poesie a Casarsa ha saputo creare un cinema personale, stilisticamente preciso e autoriale, forse davvero unico per la totale consapevolezza e l’inedita presenza nel panorama internazionale.

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