Quando il cibo che arriva sulle nostre tavole è frutto di sfruttamento nei campi il problema del caporalato diventa un problema di tutti noi, nessuno escluso. E il caporalato è una realtà ancora troppo presente in agricoltura – segnatamente in quella mediterranea, come si vedrà subito – e ciò a dispetto delle unanime condanne contro queste pratiche.

Ma che cosa è il caporalato? Il termine discende da caporale, ossia colui che per conto dei proprietari agricoli reperisce manodopera a basso costo. Può essere definito come una “forma illegale di reclutamento e organizzazione della mano d’opera, spec. agricola, attraverso intermediari (caporali) che assumono, per conto dell’imprenditore e percependo una tangente, operai giornalieri, al di fuori dei normali canali di collocamento e senza rispettare le tariffe contrattuali sui minimi salariali”.

Recentemente, l’associazione ambientalista Terra! ha pubblicato un rapporto dal titolo: E(U)xploitation. Il caporalato: una questione meridionale. Italia, Spagna, Grecia.

Il testo è composto da tre capitoli, uno per ogni Paese preso in esame. Si tratta di inchieste molto curate, sul campo, che danno uno spaccato delle condizioni a cui migliaia di lavoratori del mondo agricolo sono quotidianamente costretti a lavorare in condizioni fuori da ogni legalità. La ricerca dimostra quindi che in questi Paesi (ma non solo) lo sfruttamento dei lavoratori dell’agricoltura (con lavori in nero, paghe da fame, assenza di garanzie di sicurezza, ecc.) è ancora molto presente.

La legge italiana contro il caporalato

A differenza degli altri Paesi europei, in Italia il fenomeno del caporalato e dello sfruttamento nei campi è contrastato da una legge, frutto delle battaglie che sindacati e associazioni hanno ingaggiato nel corso degli anni e fortemente voluta dall’allora Ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina (la l. n. 199 del 2016). Questa, ad esempio, colpisce non solo l’intermediario, ma anche il datore di lavoro che si avvale dei suoi servizi, schiavizzando la manodopera.

Di più: il Ministero ha anche adottato un Piano triennale per la prevenzione e il contrasto del caporalato, in cui si pianificano una serie di azioni di intervento pubblico per scongiurare il verificarsi di tali pratiche.

Da ultimo, è importante sottolineare che nella bozza del Piano nazionale di ripresa e resilienza, appena presentato al Consiglio dei ministri e da approvare nei prossimi mesi, sono state inserite una serie di iniziative di contrasto al caporalato. Segnatamente, sono quattro misure di intervento: un miglioramento delle modalità con cui reperire, analizzare e condividere i dati sul lavoro sommerso; l’introduzione di strumenti per regolarizzare i casi di lavoro sommerso (rafforzamento delle ispezioni, inasprimento delle sanzioni, incentivi finanziari per promuovere i contratti in regola); campagne informative per datori di lavoro e lavoratori; struttura organizzative che assicurino l’attuazione delle azioni previste.

Nondimeno, i casi sono ancora tantissimi (questo perché non basta scrivere buone leggi: occorre anche un efficiente sistema amministrativo che le faccia rispettare): in un recente rapporto la Flai Cgil ha identificato almeno 180.000 lavoratori irregolari vittime dello sfruttamento e dei caporali.

Una nuova direttiva

Tornando al Rapporto E(U)xploitation, si rileva una forte critica nei confronti dell’Europa. Le istituzioni dell’Unione, infatti, non hanno ancora legiferato in merito allo sfruttamento in agricoltura. Il direttore di Terra! parla della necessità di una direttiva continentale che “aggredisca il tema e lo ponga al centro del dibattito politico”. In questa direzione va la Direttiva n. 633/2019 che, entro maggio 2021, deve essere recepita dagli Stati membri: questa, tra le altre cose, vieta le pratiche commerciali sleali – come le aste al doppio ribasso – messe in campo dai grandi attori del settore, Gdo e multinazionali dell’agroindustria, nei confronti dei piccoli produttori, riconoscendo lo squilibrio nei rapporti di filiera. In Italia, la norma è stata approvata il 31 marzo alle Camera ed è passata al Senato. Ma non basta.

L’Unione europea (e gli Stati membri) potrebbe fare anche altro, non solo vietando e punendo chi infrange la legge, ma anche promuovendo, ossia incentivando e sviluppando modelli alternativi di agricoltura, su tutti quello dell’agricoltura sociale.

La valorizzazione dell’agricoltura sociale

L’agricoltura sociale (nel mondo anglosassone detta green care o care farming) è esattamente l’opposto del caporalato perché in tale sede le attività proprie dell’impresa agricola sono adoperate per lo svolgimento di funzioni di tipo sociale e si intrecciano con il tessuto civile e sociale delle comunità territoriali locali: ad esempio il recupero di soggetti vulnerabili e svantaggiati attraverso l’interazione con animali e piante, l’inserimento lavorativo di soggetti deboli, attività educative e scolastiche, riqualificazione di territori urbani e periurbani, e così via.

L’agricoltura sociale è una nicchia e non può avere la pretesa di sostituire l’agricoltura tradizionale, tanto meno quella industriale. E tuttavia è una risposta importante e utile all’agricoltura illegale, basata sullo sfruttamento dei lavoratori e sull’inquinamento della terra e dell’aria. Ecco perché lo Stato e l’Ue devono incentivarla, promuoverla, finanziarla.

Ciò ha numerosi vantaggi: la divulgazione di un’idea e la diffusione di buone pratiche; la riqualificazione di alcune zone (per es. in Italia le famose aree interne, sempre più disabitate); la creazione di posti di lavoro; la diffusione di pratiche agricole sostenibili; l’attuazione di progetti sociali utili alla comunità (assistenza ai più deboli, inclusione, ecc.), proprie di queste attività.

A tal riguardo, occorre dire che l’Italia non si è fatta trovare impreparata. Infatti, già dal 2006, la valorizzazione dell’agricoltura sociale è indicata tra gli obiettivi dei Piani Strategici Nazionali (PSN) elaborati dal Ministero delle politiche agricole.

Nel 2015 è stata approvata la legge n. 141 che nell’articolo 1 promuove l’agricoltura sociale

quale aspetto della multifunzionalità delle imprese agricole finalizzato allo sviluppo di interventi e di servizi sociali, socio-sanitari, educativi e di inserimento socio-lavorativo, allo scopo di facilitare l’accesso adeguato e uniforme alle prestazioni essenziali da garantire alle persone, alle famiglie e alle comunità locali in tutto il territorio nazionale e in particolare nelle zone rurali o svantaggiate”.

Esiste inoltre l’Osservatorio sull’agricoltura sociale, istituito dalla legge citata e nominato con decreto del Mipaaf, che è chiamato a definire le linee guida in materia di agricoltura sociale e assume funzioni di monitoraggio, iniziativa finalizzata al coordinamento delle iniziative a fini di coordinamento con le politiche rurali.

L’agricoltura sociale non può essere l’unica risposta al caporalato e di certo non è la soluzione. Si tratta però di un percorso parallelo, ma con potenzialità di contrasto a quel fenomeno, che mostra l’importanza delle pratiche agricole, che possono sì diventare una causa di sfruttamento, sofferenza e miseria, ma anche un’occasione di riscatto, uno strumento di solidarietà e di sostegno, o ancora pratiche virtuose per la diffusione di benessere.

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