Senza dio. I miei genitori mi hanno messa al mondo senza dio. E’ vero, porto il cognome di mio padre, ma non sono battezzata nel suo nome. Il suo, di padre (mio nonno), era un diplomatico tra Africa e Indonesia, e praticava un qualche buddismo, aggirandosi per i Parioli di Roma con un turbante in testa. A un anno ero in una comune di artisti rivoluzionari e nudisti in California, cresciuta insieme a Orfeo Quagliata, il figlio di Narcissus (l’artista che ha realizzato la cupola in vetro della Basilica di Santa Maria degli Angeli a Roma, la chiesa dove si svolgono le cerimonie ufficiali della Repubblica italiana). Mio padre era femminista, mia madre manco a dirlo, entrambi impegnati nella rivoluzione dei costumi. Alle elementari frequentavo la scuola privata e credo semi-sovversiva 😀 “Scuola Attiva”, dal nome si intuisce il contesto, e la mia amatissima maestra Giovanna Frosi (figlia della proprietaria della scuola), allora fervente sessantottina, oggi è una Istruttrice certificata di Tai Chi Chuan. Insomma, l’anticonformismo e la non-convenzionalità sono stati il mio primo latte quotidiano, e devo dire che quella libertà sfrenata, al netto delle nevrosi compensatorie, mi ha permesso di stare nel mondo con curiosità e desiderio, disinibita quanto basta, irriverente nei confronti delle aspettative altrui ed emancipata da luoghi comuni, stereotipi, standard e pregiudizi (guardami in questo video).

L’esonero ideologico e militante dall’ora di religione che ho subito mi ha lasciata con lacune culturali enormi, tanto da non capire le barzellette sul cattolicesimo. E la nemesi vuole che mia figlia di sette anni (forse per una qualche trasfusione magica) li chiama Adama ed Evo (credo che il primo nome lo interpreti alla romana, ‘a dama), nonostante mi sia ben guardata dall’esonerarla a mia volta.

A parte gli scherzi, anche se non sono figlia di dio come tutt*, non ho mai sentito questa cosa come una diminutio, nè ho mai percepito un qualche vuoto al riguardo. Sta di fatto, però, che quando, 12 anni fa, Rory Cappelli mi fece conoscere il buddismo Nichiren, la mia vita ha acquisito un ritmo diverso e, dentro a quel ritmo, tutto ha cominciato ad avere un senso più profondo. Un po’ come se avessi scoperto un pentagramma dove appoggiare le mie note che, sparse, per quanto preziose e uniche, non potevano trovare melodia nè ascolto. In poche parole, è cominciata una relazione profonda, un ménage, con il significato della vita.

Di questa relazione (una vera storia d’amore con tanto di conflitti a fuoco, dubbi, delusioni, tradimenti, abbandoni e rilanci), vorrei condividere alcuni passaggi (per me sono stati fondanti e mi hanno fatta innamorare ineluttabilmente) perchè credo che possano essere utili nello smarrimento terrificante che stiamo vivendo oggi, ad ogni latitudine, longitudine e altitudine. Primo tra tutti, il principio Bonno soku bodai (“i desideri terreni sono illuminazione”): il riconoscimento delle pulsioni, della voce del corpo, delle emozioni, anche quelle disdicevoli, come materia per sviluppare valore, essenziale come al fuoco la legna, la loro integrazione con la spiritualità per me è stata una vera e propria seduzione. Un po’ come trovare finalmente casa, nonostante si trattasse di una religione.

Già, perchè per me la “religione” (ci sono tesi etimologiche contrapposte, io seguo la tesi lattanziana, dal latino religāre, composto dal prefisso re-, intensivo + ligāre =  unire insieme, legare – altrimenti non ne avrei parlato nel mio blog sui ménage) era qualcosa che “relegava”, un modo per sottrarsi alla responsabilità personale e scaricare il peso del libero arbitrio, concetti invece a me carissimi e imprescindibili. Et voilà, il buddismo invece mi ha pacificata, forse per il sapore indiscutibilmente filosofico della sua weltanshauung: siamo noi, infatti, gli artefici del nostro karma (dell’andamento della nostra vita, cioè), creiamo il nostro presente e il nostro futuro attraverso le scelte che facciamo in ogni momento. Una grande responsabilità, è vero, ma anche un potere eccezionale (empowerement), che ci permette di sentirci proprietari della nostra vita e non in sua balìa.

Perchè in effetti, poi, c’è tutta la questione (di gran voga in epoca Covid) del senso di impotenza di fronte a ostacoli che ci sembrano insormontabili, di sfighe vere, di dolori crediamo insuperabili, del lamento, del vittimismo, della rassegnazione. Tutta roba che in molti vivono come disegno divino o destino, in parte arrendendosi o trovando una tregua. Impossibile per me, combattente come sono. Il sostegno che ho trovato nella mia storia d’amore di cui sopra, è quello di Hendoku-iyaku (“trasformare il veleno in medicina”): direi che è abbastanza intuitivo, e tra l’altro se ne sta parlando molto proprio a causa della pandemia, della necessità di trattare le sciagure come opportunità. Del resto, è storia, tante persone sono state ispirate a un impegno totale verso la pace e la giustizia proprio in seguito a esperienze di guerra e ingiustizia.

Nella mia vita, poi, restava aperta la grande questione dell’ego: non mi andava proprio giù questo fatto dell’abnegazione, della sottomissione a un volere altro, lo associavo quasi a un consenso prestato a un abuso. Volevo agire la mia volontà, non quella di un altro. Che meraviglia quando ho scoperto il bellissimo brano nella Raccolta degli insegnamenti Orali di Nichiren che si chiama “Il ciliegio, il susino, il pesco e il prugno selvatico”: Daisaku Ikeda, il presidente della SGI, spiega che: “Un ciliegio è un ciliegio; un pesco è un pesco. Così come ogni albero fiorisce secondo le proprie uniche caratteristiche, anche noi dovremmo vivere nel modo che più ci si confà” (Raccolta degli insegnamenti orali, BS, 117, 54). In altre parole, siamo perfetti esattamente così come siamo. Ottimo direi per la self confidence!

Ma ancora non ero soddisfatta appieno, perchè pensavo agli stupratori, ai pedofili, o anche a quello che ieri mi ha rigato l’auto. I nostri buddisti però lo dicono: c’è una differenza tra essere quello che si è e rimanere così come si è. Ed ecco la magnificenza pura: la rivoluzione umana. Oltre ad essere un avvincente romanzo di Daisaku Ikeda in 12 volumi, è un approccio romanticissimo alla vita e si basa sull’individuare e affrontare tutto ciò che inibisce la piena espressione del nostro potenziale umano. Insomma, per vivere coerenti e quindi in pace con la propria identità autentica occorre fare ognuno la propria rivoluzione umana, cioè non smettere mai di svilupparsi nel profondo. Del resto, avevate mai pensato che la parola cattivo significa imprigionato? Io sì, e ho basato la mia vita su questa consapevolezza: che l’essere umano è infinitamente buono tranne quando è imprigionato, ossia ammalato.

Un autentico carattere individuale emerge dall’interno, non è una questione di stile o di aspetto esteriore. Qualcuno ha detto che la nostra individualità è un tesoro unico che ognuno possiede. Può essere difficile ora sapere esattamente cosa sia quel tesoro, ma senza dubbio lo possedete ed è unico. Ognuno di noi lo possiede, senza eccezione!
Se qualcuno dichiara di non possederlo, è solo perché ha deciso di non avere valore. Pensare così porta alla distruzione di questo prezioso tesoro interiore.
Molte persone, quando provano a essere se stesse, non sanno cosa voglia dire veramente. È naturale. Infatti troppo spesso quello che riteniamo essere il nostro modo di esprimere la nostra individualità lo abbiamo copiato o mutuato dagli altri. È sbagliato pensare che quello che siamo in questo momento sia tutto quello che possiamo essere. Gli esseri umani hanno la capacità di cambiare, quello che siamo adesso è solo il punto di inizio di un sé futuro ancora più meraviglioso
” (D.Ikeda, Buddismo e società 176).

E’ un po’ come se il protagonista del video game (il comune mortale), attraverso i vari stadi di avanzamento del gioco, accumulasse sempre più poteri e capacità. Nell’ottica del Sutra del Loto (il testo di riferimento del buddismo Nichiren), al contrario, il giocatore è già in possesso, sin dall’inizio, di tutti i poteri possibili: ha soltanto bisogno di un mezzo per dischiuderli e dispiegarli. Ed ecco l’ultima condivisione (anzi la penultima): la quinta parabola del Sutra del Loto.

C’era una volta l’India, un paese lontano lontano, dove le strade erano piene di polvere e chi era ricco era ricco sul serio e chi era povero era povero veramente: possedeva solo le vesti che indossava e girava il paese cercando fortuna ed elemosinando del cibo. Un giorno un uomo, pieno di polvere e di fatica e tanto povero da non ricordare più il sapore del vino e del cibo, giunse alla casa di un vecchio amico.
L’amico lo fece accomodare, gli fece stendere le gambe e riposare le membra, gli fece adagiare le braccia su morbidi cuscini; gli offrì piatti raffinati, insaporiti e arricchiti dai mille profumi e sapori di tante spezie, specialità di quel paese lontano. E gli versò del vino che scese nella sua gola come un nettare divino, come ambra, come un magico liquido celeste. L’uomo povero si ubriacò e subito si addormentò. L’amico lo guardava dormire, provando pena per lui; decise di aiutarlo.
Ma in quel mentre giunse, accaldato per la corsa e per l’affanno, un messaggero del maharajà, che gli riferì che lo si richiedeva per importanti affari in una città lontana. L’amico, però, prima di andare via si avvicinò all’uomo ubriaco e addormentato e cucì nella sua veste un gioiello di rara bellezza e forma e di grande valore, certo che al suo risveglio l’uomo lo avrebbe trovato e che avrebbe così iniziato una vita diversa, fatta di vesti nuove e cibo e bevande tutti i giorni e la certezza di poter dormire in un giaciglio comodo e caldo. E di poter abbracciare, la notte, l’amore; di poter infine eccellere in un campo, come è dato a ogni uomo e a ogni donna che viva nel benessere. L’uomo però al suo risveglio non si accorse di nulla: si mise in viaggio per altre regioni del suo grande paese senza sospettare di essere ricco, con le sue vesti logore, e come unica proprietà un recipiente di latta. 
Giunse in una città e incontrò un bambino magro magro, con gli occhi grandi e il corpo scheletrico: avrebbe voluto aiutarlo, avrebbe voluto regalargli del latte, scaldarlo con dei panni caldi, ma non poteva fare niente: si sentiva le mani vuote e il cuore gonfio di pena. Lo guardò andare via, sulle sue gambine malferme, mentre lo salutava con i suoi occhi grandi e gentili. Giunse in un’altra città dove rimase a lungo: in quel paese nessuno dava l’elemosina, non c’erano monasteri o luoghi di ricovero per i poveri e l’uomo era talmente debole che non riusciva ad andare via, ad affrontare la strada per trovare un posto migliore. Si nutriva di bacche ed erba, ma più spesso assaggiava la polvere della strada. Proprio qui lo incontrò il suo antico amico che gli disse: «Che cosa assurda, vecchio mio! Come mai ti sei ridotto così per procurarti da mangiare e vestire?». Gli porse il braccio e lo aiutò ad alzarsi; lo accompagnò al suo serraglio dove lo attendevano servitori, e cibo fresco e vesti pulite. Allora, dopo che l’uomo si fu rifocillato, ebbe mangiato a volontà e bevuto, dopo che si fu lavato e cambiato, l’amico prese la vecchia veste dell’uomo e gli mostrò, ancora là dove lui stesso l’aveva cucito, il gioiello di inestimabile valore, di grande purezza e bellezza. «È sempre stato qui e tu non lo sapevi, amico mio», gli disse. «Eri ricco e lo sei anche adesso». 
L’uomo povero non credeva ai propri occhi: il gioiello riluceva tra le sue mani e in un attimo vide tutto ciò che avrebbe potuto essere: del cibo caldo per il bambino dagli occhi grandi e gentili; vesti per tutti i poveri della città; banchetti sontuosi nei quartieri più poveri; e poi canti, danze, letture, poesie, tutto ciò che rende la vita più bella quando il cibo e le vesti non mancano. E lui aveva avuto con sé da tanto tempo questa fonte inesauribile di benefici senza accorgersene.
«Che stupido sono stato! – esclamò abbracciando l’amico – Ero così abituato alla mia misera condizione che non cercavo in alcun modo di trasformarla. Adesso capisco che la ricchezza e la felicità non stanno in un qualche posto lontano e irraggiungibile ma fanno parte della vita. Basta solo scoprirle».

Vi lascio con un video che a me fa commuovere ogni volta:

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