A settembre 2021 si terrà a New York il Summit delle Nazioni Unite sui Sistemi Alimentari (UNFFS). Si discuterà di cibo, ambiente, fame, agricoltura, cambiamenti climatici, sprechi, sostenibilità.

In questi giorni di luglio (con conclusione il 28) si è tenuto un pre-vertice, per elaborare e mettere a sistema le circa 2000 proposte arrivate da ogni parte del mondo da presentare a settembre a New York per il vero e proprio incontro internazionale. L’evento si è tenuto a Roma.

Ma al di là dei contenuti di dettaglio, sui quali si potrà ragionare meglio al termine del summit vero e proprio, è utile ragionare sulle caratteristiche di questo incontro e su chi ci sarà e non ci sarà.

Un primo aspetto – per certi versi positivo – riguarda il fatto che l’agenda non è definita dall’alto, ma tramite un processo che porterà tutti i partecipanti a concordare le future strategie e iniziative per trasformare e rendere più resistenti le filiere alimentari in tutto il mondo.
Ma ogni medaglia, si sa, ha il suo rovescio.

Un modello di questo tipo – peraltro aperto all’intervento delle multinazionali del settore (ci torniamo più avanti) – presenta almeno tre rischi: alcuni stakeholder sono più uguali degli altri, perché dotati di un peso politico-economico maggiore e andrebbero quindi trattati in modo diverso; si depotenzia il ruolo degli Stati e delle Organizzazioni internazionali governative, quindi della politica istituzionale che più di ogni altro attore ha gli strumenti per cambiare le cose; si rischia di produrre discussioni infinite e sterili, che non producono risultati concreti.
Ma non è tutto.

Decisione unilaterale:
è un modus operandi corretto?

Il vertice del 2021 è stato convocato con una decisione unilaterale del Segretario Guterres poco dopo aver firmato l’accordo di partenariato del 2019 con il World Economic Forum (WEF), l’organizzazione internazionale per la cooperazione tra pubblico e privato che ogni anno riunisce a Davos, in Svizzera, i più importanti esponenti della politica e dell’economia internazionale. Si tratta di un modus operandi discutibile: sia perché è strano che l’interlocutore sia il WEF e non le centinaia di ONG che lavorano sul campo per cambiare le cose, sia perché la decisione di convocare vertici sull’alimentazione è sempre stata presa con una decisione intergovernativa.
Si conferma, quindi, il ruolo secondario attribuito agli Stati: un bene, se pensiamo che troppe volte le stanze del potere si sono rivelate sorde alle richieste di intervento, per esempio per combattere la fame e tutelare i diritti umani; un male, se pensiamo che non-statale significa tutto e niente, dall’associazione che difende i diritti degli indigeni alla Monsanto, e non è certo garanzia di decisioni lungimiranti ed eque.

Il ruolo dei “piccoli”

Agnes Kalibata, ossia l’inviata speciale dell’Onu presso l’UNFSS, ha spiegato che i protagonisti dei prossimi decenni saranno i piccoli. Piccoli contadini, piccoli coltivatori, piccoli distributori. “Contadini e comunità locali sembrano aver perso la possibilità di determinare cosa cresce sulla loro terra”, perché occorre andare incontro alle preferenze dei consumatori indotte dalla pubblicità, ai grandi proprietari, ai mercati globali e più lontani. Belle parole, senz’altro, eppure la storia della delegata scelta per questo ruolo importante e simbolico dice altro: attuale presidente dell’Alliance for a green revolution in Africa (AGRA), la quale, fondata nel 2006 e sostenuta dalla Fondazione Bill e Melinda Gates e dalla Fondazione Rockefeller, promuove un’agricoltura intensiva, fortemente orientata all’industrializzazione del settore primario. AGRA, come riportato da Oakland Institute, vede l’Africa come un mercato (ancora non sfruttato) ideale per i soggetti privati che detengono monopoli in fatto di sementi commerciali, colture geneticamente modificate, fertilizzanti sintetici come combustibili fossili e pesticidi.

E le grandi corporation?

Andiamo avanti. Si è detto del coinvolgimento delle grandi corporation operanti nel settore agro-alimentare, che interverranno nelle discussioni così come gli altri attori presenti: ebbene, questa scelta mette al centro un approccio al cibo che rivela una certa visione. Non quella della regolazione pubblica, che usa i suoi poteri, si prende le sue responsabilità, negozia e trova accordi con la finalità di modificare l’esistente (un esistente in cui centinaia di milioni di esseri umani soffrono la fame e sono malnutriti, in cui l’obesità è in aumento, in cui gli sprechi alimentari sono insostenibili, l’agricoltura è fonte di inquinamento e siamo continuamente a rischio di pandemie di origine alimentari), ma quella degli attori che operano nel settore per ragioni commerciali che si incontrano, si scambiano opinioni e negoziano possibili soluzioni, il tutto mettendo sul tavolo i propri interessi corporativi. Un metodo che ha anche aspetti positivi, ma che nella migliore delle ipotesi potrebbe portare a tante parole vuote e un nulla di fatto.

Per modificare in meglio i sistemi alimentari mondiali c’è bisogno di fatti concreti, di interventi mirati, di politiche e di misure efficaci secondo un disegno teso all’aumento del benessere generale, non di accordi negoziali nell’ottica di maggiori profitti.

Infine, molte organizzazioni della società civile, attive nel settore agro-alimentare, hanno fortemente contestato la scelta delle Nazioni Unite, decidendo di non partecipare al Summit e mobilitandosi già in concomitanza del prevertice. Questa scelta è coraggiosa, per certi versi discutibile, ma anche utile.

Non sedersi al tavolo:
la posta in gioco è alta

È coraggiosa e discutibile perché decidere di non sedersi al tavolo comporta il rischio elevato di essere emarginati e di non poter far sentire la propria voce. In questo senso si può mettere in dubbio tale scelta perché se si abbandona il tavolo del confronto si perde l’occasione di far valere le proprie posizioni. E un sistema di governo mondiale del cibo che non tenga conto delle istanze delle tante organizzazioni che da anni si battono in questo ambito può condurre tutti a una sconfitta tremenda. Dall’altro, ha una sua ragionevolezza. Perché il movimento è forte ed ampio e, forse, “lo si nota di più se non viene”, per parafrasare una nota battuta di Nanni Moretti.
C’è un modo alternativo per far sentire la propria voce e per spiegare al mondo ciò che sta accadendo. Per chiedere, come fanno le organizzazioni contestatrici, un sistema più giusto, un cambiamento radicale delle politiche sul cibo, il sostegno all’agro-ecologia, una regolazione internazionale democratica e responsabile. Occorre tuttavia che la notizia circoli e che la voce delle associazioni risuoni elevata, affinché la discussione su temi così importanti sia veramente plurale.

Condividi: