La geografia è una costruzione umana esattamente come i discorsi: testi politici scritti sul territorio, ora piú che mai incidente nella prospettiva di un’Italia vicina alle elezioni che si dirige verso una strada sbarrata alla solidarietá

Allora vi consiglio un film che attraverso l’ironia, la stereotipoizzazione e la semplicitá del racconto la cerca e la trova. 

Le Havre di Aki Kaurismäki.

Idrissa, un ragazzino africano immigrato in Francia, cerca di recuperare la madre, l’unico punto saldo della propria origine ormai frammentata in varie parti del mondo, dall’Africa a Londra, a una cittadina portuale della Normandia che si affaccia sul Mediterraneo. Un mare che in quanto distesa in questo mondo confonde le acque.

Le Havre è una città qualunque, non deve avere una particolare rilevanza se non quella di essere abbastanza triste per ambientare una storia qualunque di frontiera e di immigrazione, che non ha la pretesa di essere edulcorata e speciale, ma di rappresentare la semplice dinamica di una vita intrecciata con altre nel contesto di una realtà complessa.

Per questo motivo non poteva essere né la Finlandia, terra natia del regista, né la Svizzera, entrambi paesi del Nord che non sono abbastanza disperati per usare parole del regista.

Marcel e Idrissa, seppur separati da una frontiera geografica di origini lontane, condividono quella politica dell’appartenenza a una classe inferiore.

Idrissa è un bambino rifugiato proveniente dall’Africa, vittima della colonizzazione europea e dell’oppressione del mondo occidentale che schiaccia anche Marcel Marx che ne fa parte. E’ un anziano francese il cui nome è riferito non a caso al filosofo comunista Karl Marx il cui ideale viene evidenziato dalla rappresentazione del lavoro esemplare di Marcel, l’anello più basso della catena proletaria manuale, un uomo che pulisce le scarpe delle persone più ricche e si mette letteralmente ai piedi della classe superiore e decide di aiutarlo e di nasconderlo alla polizia caricaturata in un detective che sembra uscito dal film di fine anni ’60, Le Samourai di Melville.

L’innovazione del regista è quella di denunciare lo stereotipo attraverso la rappresentazione esasperata dello stereotipo stesso. Come i poliziotti in quanto istituzione, anche la famiglia di Marcel, infatti, si adatta al modello sociale patriarcale in cui la moglie è la donna perfetta, senza debolezze e dedita all’accudimento.

L’ironic Bohemia del regista smaschera la morale intellettuale della borghesia che sfocia nel perbenismo e nella stereotipizzazione del sistema moderno capitalistico e patriarcale per dimostrare e rompere le strutture divisive su cui si fonda la società in cui i protagonisti sono costretti.

Dall’altra parte però, al contrario dello stereotipo che l’europeo si aspetta dell’immigrato, Idrissa é un ragazzo educato e ben istruito, proveniente da una buona famiglia.

Contesti molto diversi che li rendono infine paritari anche se leggi di comportamento ormai sono tarate come leggi di « sopravvivenza », fanno rivolgere Idrissa a Marcel come « capo o generale ». La frontiera che diventa blocco culturale lo delimita nella sua posizione sociale che deve necessariamente essere subordinata, come segno di « rispetto ». 

Ma la malattia é dentro, é nella moglie di Marcel con il cancro, metafora parallela del degrado politico. Nella scena in ospedale, Arletty chiede al medico di mantenere il segreto della sua malattia e di non dirlo a Marcel perché non può essere vista come una debole, ma solo come il modello della società che la obbliga a comportarsi, da moglie perfetta. Il medico risponde che la sua volontà di mentire è contro le regole, le stesse regole che condannano Marcel a mantenere segreta la protezione dei rifugiati senza dirlo alla polizia, violando la legge.  

La risposta del medico “ok, allora gli parlerò come un ministro” rappresenta la connessione che fa da ponte tra la malattia interna del cancro e la malattia esterna della società che discrimina i rifugiati e li tratta come una malattia.

due destini inizialmente sfrattati, due corpi minacciati da due diverse forme di insicurezza radicale e due corpi in transito che si danno il cambio, ma che poi si salvano.

Con l’ironia Aki Kaurismäki trova una via alternativa che attrae lo spettatore a far riesumare qualcosa di nascosto dietro lo stile fiabesco e interpretarlo.

Qualsiasi tipo di storia, anche la fiaba, però, non può astrarsi dalla realtà politica che la crea e come regista Aki Kaurismäki nel suo cinema non può che portarsi la sua storia e quella del suo paese, lasciando intendere le sue posizioni politiche contro il sistema delle istituzioni come concetto politico di organizzazioni repressive, su cui si fonda la società come la religione, i paesi, la famiglia.

Ispirandosi ai movimenti sociali degli anni ’70, in particolare al punk rock finlandese da cui ha tratto l’atteggiamento dei suoi film contro il conformismo anche del cinema americano, lascia emergere il suo Anarchismo fondato sulla critica della frontiera geografica: lo Stato-nazione. L’obiettivo è difendere il discorso normativo morale e politico dell’universalismo socialdemocratico.

“Sono un anarchico perché la Finlandia, come altri Paesi, è guidata da un branco di idioti”.

Aki Kaurismäki ha spesso parlato dell’ambivalenza della sua nazione, “Ho un rapporto di amore-odio con i finlandesi, a cui mi sento di appartenere ma a cui non appartengo”.

Da una parte prende le distanze dai partiti comunisti di sinistra, dall’altra dal mainstream democratico finlandese che sostiene la classe media e la politica liberista.

L’affermazione della classe media nella Terza Repubblica ha portato la Finlandia ad aderire all’Unione Europea nel 1994, perseguendo la crescita economica nelle industrie ad alta tecnologia, come promulgato dallo Stato finlandese della Seconda Repubblica, generando una popolazione di istruiti e consumatori.

La dimensione dell’universale si rimpicciolisce in un focus più ristretto e così meno contaminato come quello del vicinato di le Havre, la piccola città portuale dove le persone sono abituate ad aiutarsi a vicenda secondo un fenomeno chiamato “utopismo controfattuale”.

Una città subordinata alla metropoli capitalistica dove invece domina un individualismo aggressivo, il consumismo dei supermercati a favore del sostegno delle fonti locali e indipendenti come quelle dei suoi amici vicini, dove sopravvivono il rapporto umano e la solidarietà, anche perché come si dice « quel che semini raccogli », quindi meglio seminare in una terra bella fertile e non delegare le grandi aziende a farlo per te permettendo di controllare la tua coscienza. 

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