Quando, in piena pandemia, fu nominata curatrice e direttrice artistica della 59ª Biennale di Venezia, che inaugura il prossimo 23 aprile, Cecilia Alemani ha commentato, come prima donna italiana a ricoprire questa posizione:

comprendo e apprezzo la responsabilità e anche l’opportunità che mi viene offerta, ho intenzione di dare voce agli artisti per creare progetti unici che riflettano le loro visioni e la nostra società“.

Detto fatto, perchè quest’anno la Biennale, titolata The Milk of dream, è non binaria, con artiste donne in maggioranza “per riflettere la grande effervescenza creativa che mette in crisi la figura dell’uomo al centro del mondo”, ha detto Alemani.

Una mostra che affonda le radici nella filosofia post umana (Alemani di filosofia ne mastica, a partire dalla sua laurea) che vuole mettere in discussione il soggetto bianco occidentale cisgender e normoabile come misura di tutte le cose e del mondo (referent man).

Cecilia Alemani. Foto Andrea Avezzù. Courtesy of La Biennale di Venezia

Ecco dunque che al modello illuminista e rinascimentale dell’essere umano (maschio) arrivano gli esseri fantastici e permeabili, mutaforma, intersex e trans, cangianti di un futuro distopico dove l’antropocentrismo e l’egocentrismo lasciano il posto ad una visione ecocentrica. Identità di genere e sessuali che si mescolano, ibridi tra umanità e tecnologia: è in arrivo il nuovo mondo, come sempre preceduto dalle sue rappresentazioni.

Roberto Gil de Montes, El Pescador, 2020 (particolare). Courtesy the Artist; Kurimanzutto, Mexico City – New York

Tempo fino al 27 novembre per immergersi in questa fisione fluida del mondo, una riscrittura a 360 gradi dove alle donne spetta un ruolo predittivo importante, così come a coloro che sono riusciti, attraverso l’arte, a trovare una sintesi creativa (superandola) di quel binarismo che non è più capace di raccontarci.

E in questa contro-narrazione dell’identità umana, centrale è anche il rapporto con il pianeta, non più risorsa da predare ma sorta di un sistema quantistico, in cui tutto è entaglement e l’umano non è più al centro.

Anche nei fatti: tutta l’energia utilizzata da questa Biennale sarà da fonti green, con misure concrete per ridurre le emissioni (compensate economicamente), protocolli di comportamento a lavoratori, artisti e visitatori.

Marina Apollonio, “Dimamica circolare 6 S blu+rosso”,1965.

A volo d’aquila: se la capsula La culla della strega raccoglie 30 artiste concentrate sull’ambiguità del corpo con opere del recente passato da Paesi non eurocentrici, inTecnologia dell’incanto troviamo l’artista più rappresentativa del movimento ottico-cinetico internazionale, Marina Apollonio (oltre a Grazia Varisco e Nanda Vigo), mentre in Corpo orbita artiste e scrittrici usano figure espanse, scrittura automatica, quadri tipografici, grafemi o creature simbiotiche.

Noi non vediamo l’ora di poter vedere la performance della rumena Alexandra Pirici che parlerà di interazioni simbiotiche e parassitarie tra individui.

La seduzione di un cyborg invece propone avatar postgender (con tanto di compleanno del cyborg e un site specific come al solito provocatorio della mitica Barbara Kruger):

“Alla fine — dice Alemani — la mostra diventa sintetica, senza figura umana, con creature criogeniche e l’animale che prende il controllo sull’essere umano, anche con fiori postatomici e macchine robotiche umanoidi.

Interessantissimi anche i lavori sul corpo delle artiste contemporanee: l’americana Christina Quarles col suo tratto mosso, i corpi sfatti e coloratissimi di Andra Ursuta, le installazioni di Sara Enrico e Chiara Enzo (“i maschi sono solo nei cognomi delle donne“), che bazzica l’iperrealismo, con disturbanti rilievi di epidermide.

All’Arsenale consigliamo soprattutto le foto (Belkis Ayón sulle comunità matriarcali!), ma anche filmati e sculture (Ruth Asawa lavora su utero e uterismo, con corpi che diventano carapaci, modelli anatomici deformati, una Venere di Botticelli sostituita da un pescatore nero).

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