È un’esperienza visiva e sensoriale, un’opera dal linguaggio nuovo, quella di Francesco Thérèse, artista romano, che si divide tra cinema, scrittura, performance e videoarte. Da sempre attratto dallo Spazio e dalla figura dell’astronauta, con il cortometraggio BLUE (2019) – selezionato, nel 2020, all’Asolo Film Festival – indaga il legame fra l’essere umano e le leggi che regolano il cosmo, all’interno di una quotidianità riconoscibile, in un non luogo e un non tempo universali.

In continua espansione, BLUE stesso dà vita a RE:BLUE. Presentato come evento speciale alla IV edizione del Pigneto Film Festival, è la versione performativa del suo lavoro precedente, ma anche una giusta sintesi della tensione artistica globale di Thérèse, ancor più autoriale che sperimentale. È un invito al pubblico ad abbandonarsi all’irripetibilità e all’estemporaneità dell’interazione: un percorso immersivo, intimo e condiviso, focalizzato sulle scene più significative del suo racconto non racconto cinematografico. Un’installazione vivente che lascia il pubblico libero di muoversi, orientarsi e confrontarsi – con sé, con l’altro e con le proprie sensibilità – laddove i confini e i paradigmi tra realtà e mondi altri si dilatano, unendo e trasformando le interazioni fra spazi(o), persone e oggetti, in modi del tutto inaspettati e non pianificati.

Inizia da BLUE, passa per Sinfonia di Pini e Pignatte, IN | there e visual HAIKU fino ad arrivare a RE:BLUE: Francesco Thérèse racconta la sua (video)arte, ripercorrendo ogni pezzetto di pianeti, stelle, galassie, energia e materia che hanno contribuito alla nascita dell’Universo (RE:)BLUE. Protagonista imprescindibile, la visione intima e personale dell’essere umano.

Francesco Thérèse / foto © Walter Profilo

BLUE è “un inno all’essere umano”. Che altro è BLUE?
BLUE per me ha vari strati, diversi livelli di lettura. È il punto di incontro tra l’essere umano e il cosmo. È il primo episodio di una trilogia e ognuno, a suo modo, tratta questa dinamica: è un grosso contenitore dentro il quale si collocano gli altri due episodi (scritti ma non ancora girati). Alcuni personaggi di BLUE si ritrovano anche nel secondo e nel terzo, infatti. Mi piace creare un contesto macro: è lì che si muovono i personaggi. Non finisce tutto con un singolo lavoro: RE:BLUE ne è l’esempio, è l’Universo in continua espansione.

Perché questo titolo? 
Le ragioni sono due: è un omaggio al Blue Klain e quindi a Yves Klein, artista dello spazialismo. Il foulard finale in BLUE, infatti, fa da gancio mentre ci ritroviamo davanti alla vetrata ed è quanto di più vicino ci sia proprio a quel blu. La seconda ragione è del tutto inconscia: moltissimo della mia formazione emotiva, e quindi artistica, lo devo ai R.E.M. e Blue è anche il titolo dell’ultimo brano del loro ultimo disco. Un altro omaggio che riconosco, casuale ma non troppo: il mio lavoro è permeato da tutto ciò che ho imparato e che mi è stato trasmesso anche con la loro musica.

Oltre all’utilizzo dello split screen (frazionare lo schermo in diverse inquadrature) utilizzato da Brian De Palma, la voce narrante fuoricampo e il titolo stesso, mi ha ricordato vagamente Derek Jarman. Quali sono i suoi riferimenti artistici?
Lo split screen in BLUE, nel taxi, da sceneggiatura prevedeva tre momenti, uno successivo all’altro. La macchina da presa era fissa, con una focale sempre più stretto. È stato quasi un caso, in fase di montaggio ho utilizzato questa tecnica per accorciare e ritmare adeguatamente tutto. Per assurdo, a Jarman mi ci sono avvicinato molto solo dopo aver realizzato BLUE. Non l’avevo ‘visto’, mi sono sorpreso anch’io di alcune affinità… Spesso ragiono attraverso il metodo della pittura, anche quando giro un corto o allestisco uno spettacolo o un’installazione, come nel caso di RE:BLUE. Non sono un pittore ma dipingo da tanti anni e da quando ho cominciato a farlo, ho notato un cambio di passo, un’accelerazione nel mio approccio al lavoro. Tra i miei riferimenti c’è sicuramente Rothko, poi Fontana e Klein con lo spazialismo e – anche nel cinema – tutti quegli artisti che sono riusciti a creare un universo dentro il quale io spettatore posso scegliere di entrare: Tarkovskij, Tati, Lynch, Antonioni e Fellini.

IN | there è stato girato durante la quarantena e, idealmente, fa parte dell’Universo BLUE
È un’estensione di BLUE. Il testo stesso è preso, parzialmente, proprio dai dialoghi di BLUE. Sono testi fedelissimi agli archivi della NASA – io ho l’unico merito di averli selezionati – ma che sotto alcuni aspetti sono anche profondamente poetici. Ho scelto quelli più d’effetto, applicandoli alle fotografie del mio amico fotografo Natalino Russo che stava documentando dalla sua finestra la quarantena. Poi le voci, il montaggio: è stato un lavoro di squadra – credo molto nella condivisione del lavorofatto tutto da casa e in un momento storico particolare, ci sono molto affezionato.

Come si inserisce nei vari progetti visual HAIKU, una declinazione video art della poesia giapponese?
All’Università ho studiato Arte e Critica del Cinema, poi ho cominciato a lavorare sul set. BLUE l’ho concepito da regista ma, una volta finito, mi sono reso conto (e mi hanno fatto notare) di averlo fatto da video artista. L’ho sempre concepito come un corto da inserire, magari, nella sezione narrativa, non ne riconoscevo la sperimentazione, non è nato con questa idea. Senza rendermene conto ho fatto videoarte e ho capito che è un tipo di linguaggio che non è alternativo al cinema: è semplicemente la mia ‘autorialità’. visual HAIKU è coerente con tutto ciò che ho fatto perché è una forma poetica legata alle immagini e alla manipolazione del suono.

Come nasce l’idea di RE:BLUE e quindi di rimettere in gioco BLUE dal punto di vista della performance?
RE:BLUE è nato poco dopo aver finito BLUE (fine 2018), autoprodotto anche grazie a un crowdfunding. Mi ero ripromesso di concludere tutto con una proiezione ma sentivo che non fosse abbastanza. Uno stimolo che oggi leggo proprio come quell’Universo in espansione che scalcia e chiede di più… Succede quando scrivi una storia e un personaggio prende forma: sembra che la scelta la faccia il personaggio stesso e non chi scrive. Ricollego quella sensazione a questo evento. BLUE si stava espandendo, aveva bisogno di essere un po’ più grande. RE:BLUE è un’esperienza dal vivo, non replicabile, con degli attori ma non è propriamente uno spettacolo teatrale bensì un’installazione vivente. Ho avuto la fortuna di vivere davanti al Teatro Studio Uno: grazie ad Alessandro Di Somma (presente in BLUE) e Eleonora Turco ho visto spettacoli bellissimi, tra cui uno di teatro immersivo: per me è stata un’esperienza fenomenale che mi è rimasta nella testa, nei pensieri, nei desideri. Così ho espanso BLUE. Mark Rothko nasce come pittore figurativo quasi mediocre e prima di arrivare ai suoi rettangoli di colore, realizza i multiforms, macchie di colore che si incontrano senza una forma ben definita. Per me RE:BLUE, messo in scena a Fortezza Est (prosecuzione dello Studio Uno), in un appartamento a due piani, è stato concepito proprio così: ogni set di BLUE è stato ricreato ma modificato, espanso e i suoni e i colori di ogni set toccano l’altro set.  Un insieme di colori, immagini e suoni. Ho chiesto ad alcuni sound designer di musicare BLUE a loro piacimento. Non ho voluto sentire nulla prima. In RE:BLUE tutte le scene di BLUE partono contemporaneamente, ognuna con una colonna sonora propria. Questo si ripete in loop, per cinque volte. Lo spettatore ha come punto di partenza un set e a spettacolo iniziato è spinto a muoversi nello spazio teatrale come vuole: può rimanere fisso nello stesso set per cinque volte oppure vederne cinque secondi di ognuno ogni volta. Volevo che ognuno vivesse un’esperienza del tutto personale, in niente simile a quella di qualcunaltro, proprio perché frutto delle proprie scelte. Così ognuno è ‘montatore’ del proprio BLUE. È stato un salto nel buio… come oliare una macchina che deve essere svizzera. È stata un’esperienza davvero speciale proprio per la sincerità – e non per il manierismo – della performance, con le porte aperte all’Universo, al quale il pubblico è stato invitato e, muovendosi in questo spazio e Spazio per quaranta minuti, ha trovato la propria collocazione, riconoscendosi.

RE:BLUE / foto © Ilaria Lombardi

Questa esperienza molto personale dello spettatore, in modo diverso, è anche in Sinfonia di Pini e Pignatte, girato con un cellulare, posizionando un theremin tra Torpignattara e Pigneto e chiedendo ai passanti di suonarlo, per creare questa sinfonia… 
Sono profondamente legato e debitore a questo lavoro. Avevo risposto a una call del Pigneto Film Festival e del Karawan Fest, per raccontare il Pigneto e Tor Pignattara in un minuto e mezzo. “Sinfonia” è iperbolico come titolo, ma adeguato al sentimento; il theremin mi ha sempre incuriosito e la sua peculiarità rappresenta perfettamente il quartiere dalla forza elettrizzante di culture diverse, che mi ha adottato e a cui devo molto e con cui volevo ‘sdebitarmi’. La dinamica effettivamente richiama quello che poi ho fatto con RE:BLUE. La gente di Tor Pignattara e del Pigneto ha scritto questa Sinfonia.

Progetti futuri?
Riallestire RE:BLUE. La bellezza di questa sfida è che sarà sempre una performance site-specific, quindi non si replicherà mai nel modo in cui l’abbiamo messa in scena prima: sarà ogni volta nuovamente diversa. Simile, sotto certi aspetti, perché il testo è quello, ma magari cambieranno le musiche, gli artisti… Volendo essere ambiziosi e fiduciosi, immagino uno spettacolo che andrà avanti per anni, dove avrà modo e dove gli verrà permesso ma sarà sicuramente sempre diverso, sempre nuovo. Mi piacerebbe portarlo in uno spazio aperto, anche in un parco. Vorrei che fosse veramente un’esperienza sempre unica.

RE:BLUE / foto © Francesco Thérèse
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