La dogana e il corpo: intervista con Cristina Vuolo e Merel Van Dijk
Debutta in prima assoluta nei giorni 8, 9, 10 Maggio alla Fortezza est a Roma "La dogana" di Cristina Vuolo e Merel Van Dijk.

Debutta in prima assoluta nei giorni 8, 9, 10 Maggio alla Fortezza est a Roma "La dogana" di Cristina Vuolo e Merel Van Dijk.
Debutta in prima assoluta nei giorni 8, 9, 10 Maggio presso Fortezza est a Roma La dogana di Cristina Vuolo e Merel Van Dijk, che incontriamo oggi per farci raccontare la genesi e il significato di questa significativa riflessione sui nostri confini e le nostra rappresentazioni, più o meno consapevoli.
Che cosa ha rappresentato nella costruzione di questo spettacolo il concetto di frontiera?
Cristina: – Direi che i pensieri su frontiere, confini, dogane fisiche e mentali, sono stati il fulcro, ed è l’aspetto che mi ha stimolato quando Merel mi ha parlato di questo suo progetto. Poi il modo in cui abbiamo declinato il concetto di sicuro riflette le esperienze e gli approcci. Io per formazione mi concentro sui condizionamenti psichici: sulle barriere culturali, economiche e sociali che diventano introietti; come dire quei codici di comportamento, quelle dogane interiorizzate, che agiamo senza accorgercene.
Merel:– Dogana è un progetto che nasce da alcune esperienze della mia vita reale. Ho lasciato i Paesi Bassi nel 2014, e ho cominciato di viaggiare per allargare il mio mondo seguendo amori e progetti artistici. Attraversando le dogane aereoportuali ho iniziato a notare che c’erano sempre le stesse domande a cui dare la giusta risposta, un po’ come un quiz: Chi ero? Quale era il mio piano per il futuro? E perché volevo entrare in quel Paese? E io, cosa rispondevo? Con sorpresa mi ascoltavo moltiplicare le versioni di me: a seconda dell’interlocutore la mia storia cambiava. Poi, dialogando con Cristina mi sono resa conto che questo tipo di interrogazioni è presente anche nella vita quotidiana: quando ci troviamo a giustificarci se abbiamo il sentore di essere usciti dallo schema previsto. Non sempre abbiamo la forza di lottare, e così alle volte ci ritroviamo a mentire. Quindi direi che per me la frontiera è la dinamica che si instaura intorno al controllo\rispetto della Norma.
Parlate di disobbedienza: in che termini vi piacerebbe che lo spettatore la imparasse?
Cristina: – La disobbedienza la vorremmo suscitare con l’ironia, scatenare con una risata o un moto di entusiasmo; ma lo spettatore è sempre meglio non pensarlo troppo o si finisce per ubbidirgli!
Merel: – Per poter disobbedire è necessario riconoscere che tutti abbiamo dentro delle dogane che ci parlano, ci influenzano, ci manipolano. E a volte siamo noi delle dogane per gli altri. Ascoltando queste voci abbiamo a nostra disposizione diverse possibilità, possiamo decidere di ignorarle o prenderle molto sul serio, ma anche prenderle in giro oppure, consapevolmente, lottare. Insomma la disobbedienza inizia smettendo di identificarsi: spesso aderiamo così tanto con le voci della testa da non percepirle.
Cosa succede quando l’identità viene costretta in un codice a barre?
Cristina: – Beh se guardiamo le nostre vite più da vicino è mostruosamente visibile: per esempio l’accumulo di stress, o una ciclica perdita di senso, insomma è la bestia ‘che si prende tutto anche il caffè’ come cantava il Franco. Però quello che cerchiamo di mettere in scena in Dogana è un processo che trova nell’atto diciamo disorganizzato, imprevisto ma fortemente voluto, un’energia che sfida e sfugge al codice a barre.
Merel: – Quando ci diamo una identità fissa o ci chiudiamo in una narrazione troppo codificata, succede che ci trasformiamo in oggetti, quasi come prodotti invece che persone che crescono e cambiano idea, paese, stile di vita, modo di amare, eccetera.
Spesso per essere accettati, per poter entrare in altri paesi, per non essere aggrediti, per tenersi un lavoro dobbiamo raccontare storie che omettono parti di noi. Ma l’omissione ha un suo prezzo, di libertà interna, perché cominci a credere in quel codice a barre che ti sei costruito, finisci per credere a quella narrazione così rassicurante, così normalizzante. Quel: sono come tu mi vuoi.
Quanto pesa la musica in questo spettacolo e come si inserisce?
Cristina:- La composizione musicale sicuramente viene da Merel, io sono più nell’ascolto, nella conformazione dei suoni. Mi interessa anche indagare quanto uno strumento o un’armonia dica di un determinato periodo storico, e poi giocarci sopra in uno scimmiottamento della Tradizione. La Tradizione con i suoi oneri e onori è in sicura rotta di collisione con l’imprevisto, l’impensato, l’atto creativo: dunque si tratta di uno scontro necessario di forze che si spera sia generativo, no?
Merel:- Ho sempre avuto questa abitudine di raccogliere suoni dei luoghi specifici in cui mi trovavo, aggiungendovi poi delle musicalità per amplificare emozioni e atmosfere. Già da bambina col registratore a cassette incidevo la mia voce per poi comporre delle armonie. Questo amore è ritornato prepotente negli ultimi anni dei miei studi all’Accademia Teatrale Olandese, e ho finito per concentrarmi sull’arrangiamento musicale, e come compositrice e musicista in scena prendevo parte agli spettacoli dei miei compagni di studi.
Ovviamente questo mio mondo è presente sulla scena di Dogana, ma qui la musica è al servizio della narrazione, e si fa più metafora che espressione concertistica.
Era la tua prima regia? Come avete collaborato alla realizzazione?
Cristina: – Si è la mia prima regia in teatro. Sul palco ho scoperto la magia del corpo sonoro (citando Chiara Guidi), sollecitata dagli infiniti segnali della comunicazione corporea. I talenti di Merel spingono ad osare nell’improvvisazione, a giocare col ritmo, a modulare la sua lingua madre con altri idiomi. Direi che abbiamo costruito Dogana palleggiandoci parole, suoni e musiche, cercando la narrazione nella molteplicità dei linguaggi. Vorrei aggiungere che il godimento che ho provato nei mesi di lavorazione ha governato quest’esperienza; e di per sé, il provare piacere in quel che si fa è una vittoria, anche personale essendo io un soggetto turbato, pronto a guardarsi con sospetto.
Merel:- In realtà Cristina ha fatto diverse regie per le performance musicali delle No Choice, di cui faccio parte. In quel frangente ho scoperto la sua intelligenza teatrale che mi faceva sentire in sintonia con i suoi feedback, ero semplicemente sempre d’accordo. Lì ho maturato una stima e fiducia nelle sua capacità.
Ormai abituata ad essere sul palco in compagnia di uno strumento musicale, lavorando a Dogana ho percepito quella nudità di chi si trova da sola sulla scena, sentendo il disagio del mio corpo in azione. Cristina mi ha accompagnato nell’esplorazione lavorando sul piacere e la mortificazione per tutto ciò che sono e non sono; il che ovviamente ha a che fare anche con i codici di genere, l’eleganza, la disinvoltura, la naturalezza che dovresti abitare in quanto corpo femminile: non ci dice forse questo la società? Posso dire che questa collaborazione mi fa uscire potenziata nel mio desiderio di essere vista e nella necessità di occupare uno spazio: come artista, come persona queer e come donna.