Una volta ho letto sul vetro di una libreria la frase “amare significa riconoscersi nell’altro”. Riconoscersi presuppone che io prima debba conoscermi, ed ecco tornare la misteriosa domanda: “chi sono io?“.

Qualcuno direbbe che siamo il prodotto delle nostre scelte, ma questa risposta non mi convince molto. Un prodotto è limitato in tutte le sue forme, indica qualcosa di compiuto, senza alcun margine di correzione. Se commetti uno sbaglio è la fine, va a finire in un cassetto e non puoi più liberartene. 

Ma se invece di sbaglio parlassimo di errore? Un errare dalla retta via, che è poi la via della conoscenza di noi stessi, un perdersi per poi ritrovarsi. Le scelte che compiamo sono tante possibilità di felicità, e se erriamo è perché ancora non abbiamo capito qual è la nostra strada. Probabilmente non sappiamo ancora dove stiamo andando, ma l’importante è non smettere di cercare. Noi abbiamo paura di incamminarci, abbiamo il timore di vivere e di scoprirci vivi, e ogni nostro passo porta con sé l’angoscia per il futuro incerto. Questo accade quando si vive la vita come se fosse un gioco: se perdi sei fuori, inutile che provi a rialzarti. Scelte di questo genere sono sicuramente più comode, ti evitano la fatica del cammino, della salita, ma ti privano della vista finale. 

A chi invece questa meta non se l’è preclusa, continuando a cercare senza darsi per vinto, è dedicata la storia che più di tutte incorona il suo coraggio: la storia del brutto anatroccolo. 

Una favola che racconta in breve il percorso di crescita di ognuno di noi, fino a scoprire ciò che siamo, trovandoci in qualcuno che amiamo. Il brutto anatroccolo era brutto perché non assomigliava a nessuno, le sue diversità erano viste come eccessi o difetti, la sua fragilità veniva derisa, al punto da indurlo a scappare. Si perse tante volte, conobbe molti animali, ma in nessuno si ritrovava, in tutti si riconosceva diverso e quindi sbagliato. Fino al giorno in cui, alzati gli occhi al cielo, lo spettacolo che vide fu una meraviglia: uno stormo di bellissimi cigni che volavano verso il sole. L’anatroccolo in quel momento sentì subito di amarli, senza neppure sapere chi fossero. Ma erano troppo lontani e lui era ancora piccolo e fragile, la sua bellezza non era ancora sbocciata. Dovette aspettare la primavera per rendersi conto che le sue ali erano divenute grandi abbastanza per poter volare. Ritrovò quei cigni maestosi, che lo riconobbero come loro simile e lo ammirarono in tutto il suo fiorente splendore, e lui, guardandosi per la prima volta con i loro occhi, si riconobbe e si amò. Il suo fascino era indescrivibile, nessuno si sarebbe mai aspettato che potesse derivare da un essere all’origine cosi piccolo e brutto, ma il suo cuore lo sapeva, aveva conosciuto e sperimentato la sofferenza e per questo motivo non divenne superbo ma amò in totale purezza. 

La morale è tanto bella quanto semplice: ogni essere creato è per definizione bello, ha solo bisogno del suo tempo, della sua primavera, per potersi schiudere al mondo.

Se si elimina la fragilità, se non si aspetta che maturi con i suoi tempi, come i fiori più belli e più profumati, si perderà la sua possibile bellezza. Le nostre ferite sono come delle finestre, attraverso cui la luce può passare e ripassare, creando delle sfumature magnifiche, come quelle del sole all’alba e al tramonto: questi ultimi sono imperfetti, non sono limpidi come il cielo in pieno giorno, eppure, quando la loro magia avviene, nessuno di noi riesce a rimanerne indifferente. 

Bisogna dare il tempo alle persone, alle cose. Bisogna avere uno sguardo puro, come quello di un bambino che si lascia ancora meravigliare dalla primavera, che non si stanca mai di contemplarla.

Bisogna far rumore, anche se crea disturbo. Perché è questo che crea l’essere umano, disturbo. Da quando nasce, l’uomo disturba la quiete con il suo pianto, fa capire al mondo che lui c’è, che esiste, ma il mondo spesso è un vecchio burbero, che non ama le voci dei bambini. Quel disturbo deve avere il tempo di lasciarsi trasformare in suono. Se non glielo permettiamo, potremmo rischiare di privarci di un altro Beethoven, di un altro dono unico. 

Fin quando la domanda del “chi sono” rimarrà, il mistero che la accompagna rimarrà anche lui, facendoci inevitabilmente alzare gli occhi al cielo, proprio come il brutto anatroccolo, e ponendoci nel cuore la vera domanda: “per chi siamo nati?” 

Lì si gioca tutta la nostra esistenza, nella domanda “per chi sono io”. Siamo un dono per qualcuno. E il dono acquisisce senso nel momento in cui è ricevuto, da solo non è nulla. 

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