Pochi giorni fa, commento un post su Facebook di Drusilla Foer, di cui sono una dei tanti e delle tante fan e a cui ho chiesto di entrare nel Movimento Culturale ReWriters, cosa che probabilmente farà. 48 o 72 ore dopo, non ricordo, trovo su Messenger un messaggio di una donna che non conosco, mi dice che ha letto il mio commento, e che forse sono la persona di cui Oriana le aveva tanto parlato, che sta cercando qualunque filo possibile la possa ricondurre a lei. Oriana è stata la maestra d’asilo di mia figlia (la foto di copertina di Chiara Pasqualini le ritrae entrambe al mio matrimonio), una donna con cui è nato un legame molto particolare. Perchè quelle parole strane, quel tono? Sta bene, Oriana, le chiedo.

No, Oriana è morta. Apro la chat di wapp con lei, con Oriana: il mio ultimo messaggio, a gennaio, era Stai bene?. Non mi aveva mai risposto. Ci ha lasciati il primo marzo, mi dice Chiara, che intanto sto cliccando su Facebook, alla ricerca di qualcosa che non so descrivere, forse un argine all’angoscia improvvisa. Chiara ha la mia età, la mia stessa mutazione genetica, pratica come me il buddismo Nichiren. Sua figlia era nella classe avanti alla mia, nello stesso asilo, ma noi non ci siamo mai incontrate, almeno in questa vita. Questo dialogo digitale continua più di un’ora, lei, la sconosciuta che forse Oriana si è divertita a farmi incontrare pensando a qualche opportunità esistenziale per entrambe: finisco tutte le lacrime a disposizione.

Oggi mi cerca il marito, Fabio: gli chiedo tutto. Parla senza fermarsi, a lungo, lo sento piangere, piango anche io, eppure più parla e più mi sento sollevare, levitare, una specie di euforia, una gioia che si confonde col dolore e viceversa, un’emozione talmente intensa che ne confondo il segno, ed è proprio quello che mi sta dicendo Fabio, con cui divento, a un certo punto, un tutt’uno: “Cerco di ricostruire ogni momento dai nostri 18 anni, è molto doloroso, ma in un certo senso anche bellissimo, perchè Oriana è un’assenza viva“.

Non è stato il mio dolore a farmi scrivere questo articolo ma l’amore di quest’uomo, sentirlo così potente in ognuna delle parole pronunciate, un amore consapevole, compiuto, denso. Ci vuole amore per morire, è questo ciò che voglio dire oggi, parlando di un argomento tabù, che solo il mio amico Taffo riesce ad affrontare senza suscitare malessere.

Durante questo ultimo anno ho saputo di tante persone morte, amici, genitori di amici, amici di amici. Sto invecchiando, stiamo invecchiando, io e i miei amici, e non è più come a 20 anni, quando la vita era eterna. E poi il Covid, che appunto si è portato via tante persone, puff, in un attimo. E come me tanti hanno toccato con mano, ultimamente.

Fabio oggi mi ha donato la possibilità di fare questa riflessione sulla morte, che non è tanto la fine di un percorso ma ciò che ispira e infonde vita all’intero percorso. Prima lo si comprende e meglio si muore, cioè, si vive. Vivere con la consapevolezza che ogni minuto non tornerà mai più ci permette di dare un valore immenso ad ogni momento della nostra giornata, della nostra vita, e quindi di provare gioie e gratitudine. Ci aiuta a scegliere con chi passare i minuti della nostra esistenza, quali persone tenere accanto, quali evitare, in che cosa investire le nostre energie, a distinguere ciò che per noi conta davvero dai capricci di un attimo, pure illusioni. Ci aiuta a guardare dove siamo, dove stiamo andando, ad approfondire la gioia, a cercare la felicità, a sviluppare la nostra spiritualità, a fare tesoro di ciò che abbiamo in dono, ci rende generosi, empatici, ci disinibisce, ci riempie di coraggio perchè abbiamo paura. E ci insegna a non procrastinare, a stare nel qui ed ora, a vivere in uno stato di minfulness.

“Ci aiuta ad approfondire la gioia, a cercare la felicità”

Fin da quando sono bambina vivo nella morte, con serenità e riverenza, sapendo di essere diversa, di camminare a braccetto con qualcosa che a molti fa ribrezzo: vivo da 49 anni nella consapevolezza che tutto ciò che faccio non tornerà più, e questo stato della mente, questo sentimento, non mi ha mai dato angoscia ma solo donato uno stato di grazia: quella grazia di chi sente costantemente la profondità di tutte le cose, di chi vive in un contatto continuo con il senso e il significato di ogni esperienza, di chi percepisce con intensità ogni sfumatura dell’esistenza. Questo mio incedere nel mondo è stato ed è sia il mio carisma che il mio essere pesante, un peso. Misura che ho sempre ritenuto relativa, dato che il suo valore dipende da che cos’è che pesa.

Eppure, non esiste stato di grazia capace di ripararci dal dolore della morte di chi amiamo. Non esiste consapevolezza che ci protegga dalla paura di morire. La morte resta, comunque, padrona delle nostre vite. Per fortuna direi, perchè credo che, soprattutto oggi, in quest’era egologica, il senso del limite sia l’unica fortuna che ancora abbiamo per difenderci dall’autodistruzione. Terzani in questo è stato un maestro e, oltre a leggere il suo libro La fine è il mio inizio, vi consiglio il film omonimo, del 2010, con uno straordinario Bruno Ganz e il talento Elio Germano:

E adesso, guardate quest’altro trailer, di uno spettacolo teatrale sulla morte e sul lutto: Gaia Luce è uno spettacolo ispirato alla storia vera di Gaia Molinari e Valentina Carraro. Gaia è stata brutalmente uccisa e sua madre Valentina racconta la sua esperienza salendo sul palco, senza recitare, ma semplicemente raccontando di sé con la voce dell’amore. A sostenerla ci sono due attrici professioniste, una che interpreta la mamma smarrita e sofferente, l’alterego di Valentina, e l’altra che interpreta lo spirito danzante e luminoso di Gaia. Ad ammorbidire il pathos della recitazione interviene una art performer da una lavagna luminosa che proietta sullo sfondo della scena illustrazioni ed effetti a tratti forti, a tratti poetici.

L’esperienza è diventata un TED che vi lascio qui: per me è stato di aiuto e ispirazione.

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