Chi non ricorda lo sceneggiato radiofonico War of the Worlds, trasmesso nel 1938 dalla CBS, che indusse molti ascoltatori, ingannati dal suo forte realismo, a credere in un’invasione aliena in corso? Oggi quella precipitazione nel reale, causa la selva di bufale che imperversano ovunque e raggiungono il loro picco sul web, avrebbe tutto un altro effetto: siamo ormai immersi fino al collo nella mortale palude di un’informazione falsa, scorretta o ingannevole alimentata soprattutto dal narcisismo (se ne guadagna in visibilità), dall’ignoranza (non si sa distinguere il vero dal falso) e dalla superficialità (non si legge ciò che si condivide).

Notizie false e fattoidi amplificati dalle nuove tecnologie che proliferano e mutano rapidamente come un virus, replicando i modelli matematici di diffusione di un’epidemia. Lo scopo non è di arrivare alla verità ultima ma piuttosto di negare la penultima per scalzarla e sovrapporle la propria, senza cedere di un millimetro nemmeno di fronte all’evidenza. A essere implicata è una post-verità le cui mutevoli facce (rumors, leggende metropolitane, ecc.) si moltiplicano ogni giorno di più.
Post-verità, il cui antecedente inglese (post-truth, parola reginetta del 2016 per l’Oxford English Dictionary) circolava già nei primissimi anni Novanta, all’indomani della conclusione della Prima Guerra del Golfo, ci dice di un’informazione (o di una politica) per la quale i fatti contano meno delle parole, l’argomentazione cede alla seduzione, il vero e il giusto lasciano il campo al bello e al verosimile, le emozioni e le convinzioni personali persuadono più di valori, idee, riscontri obiettivi.
Appariamo più credibili se parliamo al cuore anziché alla testa dei nostri potenziali lettori (o elettori), ma l’informazione istituzionale dovrebbe cominciare a far quadrato contro gli articoli che manipolano pericolosamente la realtà (così, in un titolo giornalistico, un’aggressione può finire per diventare un massacro) per attirare i lettori e moltiplicare i like.

Alla base di tutto questo c’è anche un altro fatto: tutto (settore per settore, oggetto dopo oggetto, esperienza dietro esperienza) va sempre più riducendosi al rango di merce, e il mondo dell’informazione non fa eccezione. E quando l’involucro dell’opinione (wrapping paper) non prende il sopravvento sui fatti, o non si confezionano le notizie secondo standard da perfetto prêt-à-porter, ci si affida volentieri alla meccanicità di volgari operazioni di charging and discharging: carico di materiali di seconda mano (o peggio) e scarico del frutto proibito del proprio lavoro in quell’immenso serbatoio di materiali che è la Rete.
Un centonario taglia e incolla o un allegro riuso delle fonti, risultato di un saccheggiamento perverso di autorità anonime o anodine (pallide imitazioni delle auctoritates, specie cristiane, chiamate a raccolta dall’intellettuale medievale), che lede i principi sul diritto di copia e ci riporta indietro nel tempo. Ci riconduce a prima dell’emanazione dell’Act for the Encouragement of Learning (1710), che sancì l’introduzione ufficiale del copyright – anche se non da tutti ritenuta tale – a opera di Anna d’Inghilterra.

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