In un mondo in cui il videogioco rappresenta la via di fuga più semplice ed immediata dalla realtà, l’anello mancante tra reale e virtuale rimane saldamente ancorato al concetto di morte. I videogames, grazie allo sviluppo tecnologico rapidissimo partito in questo settore dagli anni 2000 in poi, sono un prodotto culturale che permette ai propri utenti di immergersi – a volte anche letteralmente, grazie al VR – in mondi fantastici capaci di sostituire il reale con il virtuale.
Le tecnologie hanno portato l’immersività dei giochi moderni a livelli mai visti, rendendo a volte difficile distinguere addirittura un’immagine reale da una virtuale. C’è un gap, però, tra realtà e finzione videoludica, che viene mantenuto in vita dal concetto di morte. Nel videogioco possiamo permetterci di essere spericolati, scavezzacollo, impavidi: si riparte sempre e comunque dal checkpoint – o punto di rinascita (in gergo, respawn).
Qualsiasi problema può essere risolto, quando ci si trova nel nostro iperrealistico mondo virtuale, anche la morte. Quando in uno sparatutto, ad esempio, riceviamo un colpo dritto alla testa, non moriamo realmente; no, perché ci basterà attendere un breve tempo di rinascita per ripartire più carichi di prima e vendicarci del nostro carnefice. Il videogioco, oggi capace di offrire migliaia di realtà alternative ed assolutamente credibili, rappresenta un rifugio sicuro da tutte le incertezze della quotidianità. Proprio per questo, l’utenza videoludica cresce esponenzialmente di stagione in stagione.
L’industria del gaming è diventata, in un ventennio, una delle più fruttuose a livello globale, potendo contare su tecnologia, denaro ed un numero elevatissimo di consumatori. Ma la situazione non è sempre stata questa. Quando, infatti, i videogiochi non potevano offrire una grafica realistica, con dei suoni capaci di intrappolare il giocatore in una vera e propria realtà alternativa, esisteva la sfida. La missione principale, lo ricorderemo tutti, era quella di leggere il più tardi possibile la scritta Game Over; prima, la morte era – scusatemi il gioco di parole – viva e vegeta all’interno dei prodotti videoludici. Avevamo a disposizione un certo numero di vite per ogni sessione di gioco, finite le quali avremmo dovuto ricominciare tutto da capo.
Ma era un altro periodo storico, dove l’incertezza per il futuro era decisamente meno presente nelle vite di tutti. Potevamo osare nella vita reale, concedendoci il lusso di vivere l’ignota esperienza della morte tramite i videogiochi. Oggi si leggono sempre meno Game Over sullo schermo, ma se ne sentono molti di più nella realtà. Reale e virtuale si sono date il cambio nel ben più vasto scenario che è la vita, oggi colma di incertezza. Per rifugiarci e fuggire dall’incerto futuro, giochiamo. Nel videogioco, oggi, non si muore mai, non si arriva mai al Game Over. È ovvio che, cambiati i tempi, i consumatori abbiano scoperto nuovi bisogni.
La morte, in ogni cultura, è letteralmente la fine di tutto; si dice spesso, nel gergo, che quando una persona muore questa vada in pace. Ecco, proprio per questo, oggi i videogiochi non ti danno mai un momento per farla finita e pensare ad altro; si gioca senza mai fermarsi, senza mai arrivare ad un game over, perché la condizione di tutti è cambiata e si è fatta più incerta. Il Game Over oggi ci sorprende quando non troviamo lavoro, quando facciamo un investimento sbagliato o quando scoppia una pandemia all’improvviso. Nell’incertezza sappiamo però che i videogiochi sono lì ad offrirci una vita alternativa, dove le paure e le incertezze svaniscono, dando spazio a sentimenti sì positivi, ma comunque fittizi e provvisori.