Accanto ai numerosi cambiamenti storici e culturali che hanno segnato il passaggio generazionale tra gli attuali cinquantenni e i millennials, ci sono situazioni che sembrano inscalfibili: tutt’al più corrono sottotraccia, sovrastate da altre attualità, ma sempre pronte a riesplodere con una virulenza che lascia sgomenti noi spettatori. Il conflitto in Palestina è una di queste, e ne parliamo con la blogger Silvia Guzzetta che non solo si è presa la briga di andare a vedere con i suoi occhi come si vive in un campo profughi, ma anche di capire come le origini di quel conflitto sono state narrate dalla grande fabbrica dell’immaginario collettivo che è il cinema. 

Così, tra una speranza di riconciliazione affidata alle parole di Paul Newman e la cicatrice permanente di Sabra e Shatila dove tuttora vivono (sopravvivono?) ammassati i palestinesi fuggiti o cacciati quando fu istituito lo stato di Israele, si snoda un percorso che finora sembra non avere altro sbocco che la violenza. Il conflitto che imperversa dopo gli attacchi terroristici dello scorso ottobre ha già fatto un numero di vittime paragonabile solo alla Nakba, la catastrofe, come è rimasto nella memoria degli arabi quel primo scontro che ha segnato la storia del Medio Oriente negli ultimi settant’anni.

Guzzetta: “non più contro, ma con l’altro da noi”

Eppure, lo stesso Libano del quale i profughi non sono mai diventati cittadini, storicamente è un crogiolo di religioni. E’ la prova, benché sfregiata dai conflitti di ieri e di oggi, che la convivenza tra identità diverse è un’opzione praticabile; e che non è necessario – anzi è a sua volta una forma di violenza – tradurre la nostra esigenza di partecipazione emotiva in contrapposizioni schematiche fra torto e ragione. Per capire la complessità dello scenario mediorientale, il primo passo sarebbe uscire da certi automatismi del pensiero che i social media alimentano e amplificano: se sei con A sei contro B, se difendi i palestinesi odi gli ebrei e viceversa. In questo modo facciamo nostra la logica della sopraffazione, che può essere disinnescata solo imparando a definirci nella relazione: non più contro, ma con l’altro da noi.

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