Nella brutale violenza su un animale indifeso, come il caso recente della capretta uccisa ad Anagni, così come nella bestialità (tutta umana) di uno stupro di gruppo come quello avvenuto a Palermo, nella glaciale indifferenza che segue l’eccitazione collettiva di un istinto di morte ridotto a divertissement, si tocca con mano lo sfaldarsi di quel fondo indimostrabile e indeducibile dell’etica che il filosofo e sociologo Theodor Ludwig Wiesengrund Adorno sperava potesse essere il lascito duraturo di Auschwitz (per chi vuole approfondire ecco un seminario di Teoria Critica Corporeità e animalità nella filosofia dialettica).

Perché ci si chiede su cosa dovrebbe mai far presa il potere educativo della parola e dell’esempio in anime che sembrano avvizzite anche alla più elementare forma di pietà, in occhi resi ciechi al dolore da un narcisismo che deriva, probabilmente, non da un’ipertrofia dell’io quanto dall’immiserimento del soggetto in un mondo che progressivamente lo riduce ad appendice del processo di riproduzione sociale.

L’orrore di Auschwitz e l’orrore di oggi

Ma è probabile che l’impotenza della parola e dell’esempio ad impedire che si formi quella corazza di disumanità, ad impedire che la mano si faccia strumento di affermazione di sé attraverso la morte dell’altro, registri semplicemente un difetto nel manico: sono le nostre stesse parole e i nostri fallimentari esempi a rendere possibile l’orrore della cui colpa non possono ormai dirsi innocenti.

Nessun maschio, nessun padre, nessun fratello, nessun amico può dire di aver fatto abbastanza davanti ad uno stupro perpetrato con quella agghiacciante predeterminazione. Nessun essere umano può sentirsi la coscienza a posto nei confronti di una testa di animale sfondata a calci per puro divertimento.

Perché questi casi eclatanti mostrano quanto quella violenza sia introiettata come normalità, perché essi non sono che il sintomo evidente di una disfunzione della nostra umanità che ribolle sotto la superficie della quotidianità.

E, non da ultimo, perché tra la violenza che le donne e gli animali subiscono nella nostra società ad ogni istante e quella che balza ai disonori della cronaca non c’è che una differenza di grado.

Abbiamo, certo, tutto il diritto di dire che il mondo non si cambia solo con l’esempio e le belle parole, che, anzi, proprio in una società in cui la violenza, l’indifferenza e l’egoismo sono eretti a sistema il carnefice che ha bisogno della mortificazione dell’altro per sentirsi vivo testimonia della sua, quanto della nostra, impotenza. Che solo una società in cui il libero sviluppo di ognuno è condizione del libero sviluppo di tutti renderebbe possibile l’etica, la cura, il rispetto e un’educazione degna di questo nome.

La disumanizzazione è diventata
un fattore di regressione sociale

Ma l’impotenza cui lo stato di cose presenti ci condanna, non può diventare una scusa per la connivenza con quella violenza. E, soprattutto, diventa essenziale che le nostre parole e i nostri esempi diagnostichino le cause materiali di quell’impotenza e le denuncino senza temporeggiare.

Non si può rimandare oltre la rivolta contro una disumanizzazione che è diventata un fattore di regressione sociale e politica su scala globale. La lezione di Auschwitz, posto che la si sia mai imparata, si è esaurita. Il corpo dell’altro torna ad essere torturabile senza neanche provare vergogna.

Che le vittime non abbiano mai potuto credere a quella menzogna consolatoria non consola nessuno e il cinismo che la sa lunga e ci rimprovera le illusioni umanistiche è ormai solidale con il nuovo e il vecchio fascismo.

Il pensiero reazionario, oggi come ieri, vive di deliranti passioni e spietata indifferenza per gli inermi. Il futuro, se ha da esserci, potrà essere dischiuso invece solo da una prassi che sappia coniugare il sentire del corpo che reagisce al dolore universale con l’astrazione di un pensiero in grado di denunciarne le cause con inflessibile fermezza.

Al lettore interessato consiglio la lettura delle lezioni di Adorno sulla metafisica che trattano il tema della corporeità e della morte dopo Auschwitz.

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