Arrivo un po’ tardi a parlare della serie televisiva di produzione italiana su Netflix La legge di Lidia Poët e del perché è utile – e anche gradevole – vederla, ma mai come in questo caso ho sentito il bisogno di prendere un po’ di distanza. Intanto, come si sa, si ispira a un personaggio reale: la prima avvocata d’Italia, iscritta all’albo a Torino nel 1883, peccato che la buttarono subito fuori, e nonostante il suo ricorso la respinsero ancora: ci abbiamo ripensato, una donna avvocato non si può, tornatene a casa.

La serie Netflix – produzione Groenlandia – però parte subito per la tangente: Lidia Poët, quella vera, diventa un’ispirazione con qualche aderenza biografica per tracciare – nei panni della molto brava Matilda De Angelis – la storia di una giovane donna irriverente, sessualmente libera (prima scena del primo episodio: lei nel pieno di un orgasmo procurato dalla bocca di un friend with benefits, così la vediamo subito nuda), piena di iniziative, che una volta respinta dall’avvocatura comincia a fare da assistente al fratello maggiore Giovanni Enrico (la legge è una passione di famiglia; l’attore è Eduardo Scarpetta) e si trasforma in una sorta di investigatrice senza paura.

I punti deboli della serie e le contaminazioni tra storicità e fantasy

Il plot di queste sue avventure balla spesso sul filo dell’implausibile e spesso lo valica, e non solo per gli indizi labili e le conclusioni fortunose dei casi investigativi. Ad esempio, nel primo episodio, la vittima è una sedicenne prima ballerina dell’Opera, che però misteriosamente è figlia di un generale e fidanzata di un nobile (difficile immaginare che una signorina della Torino bene a fine Ottocento calcasse le scene).

Lidia stessa sfida il patto fra sceneggiatore e spettatore, la sospensione dell’incredulità: impreca come un carrettiere, non ha lavoro o modo di pagarsi un affitto e infatti torna a vivere dal fratello, però trova i soldi e il tempo per raffinate toilette (bellissime); beve cognac buttandolo giù col gesto pratico del polso dell’alcolista (mi viene in mentre Via col vento, film e romanzo, dove Rossella fa lo stesso, altrettanto di nascosto). Così è improbabile la nipotina (Sinéad Thornhill) che si innamora del giardiniere, povero ma tanto un bravo ragazzo; e il fratello Enrico che comincia denigrandola ma si trasforma in fan; e la cognata (Sara Lazzaro) che finisce per comprendere le istanze femministe di Lidia. Non manca una storia d’amore, poco più che abbozzata ma foriera di sviluppi futuri.

Detto tutto ciò, la serie – frutto di un gruppo di sceneggiatori: Guido Iuculano, Davide Orsini, Elisa Dondi, Daniela Gambaro, Paolo Piccirillo – va vista. I discendenti di Lidia Poët hanno protestato, e la critica si divide fra quelli che “questa storia non sta in piedi” e quelli che “sarà implausibile ma anche Bridgerton lo è”, ovvero: l’abitudine a contaminare la realtà e la plausibilità storica con elementi al limite del fantasy ormai è consolidata.

Lidia Poët e il maschilismo
pervasivo della società

Ma vi dirò cosa sta in piedi in La legge di Lidia Poët: è la rappresentazione del maschilismo pervasivo della società, quella dell’epoca sì, ma con echi che ogni donna ancora oggi vive sulla sua pelle: sentirsi dire senza tregua che non puoi, non devi, non sei capace; e se continui, sentirti denigrare e vederti negare i tuoi diritti. Succede ancora anche qui in Italia, nel nostro Occidente progredito dove le donne spesso smettono di lavorare se fanno un figlio, e succede ogni giorno, tutti i giorni, in tante parti del mondo. Lo stillicidio del senso del sé, lo scoraggiamento, la voglia di cedere le armi: puntata dopo puntata te li senti plasticamente addosso.

Allora non solo è il caso di vedere La legge di Lidia Poët, ma pure di ricordare davvero chi fu davvero: valdese di nascita, insegnante diplomata, poliglotta, laureata in legge con una tesi sul diritto di voto per le donne, abilitata all’avvocatura, bocciata poi dalla Procura generale del Regno solo in quanto donna; impegnata da sempre per i diritti dei detenuti e dei minori.

Avvocata lo diventò, alla fine, a 65 anni, nel 1919 quando la legge Sacchi autorizzò esplicitamente le donne a entrare nei pubblici uffici:

“Le donne sono ammesse, a pari titolo degli uomini, ad esercitare tutte le professioni ed a coprire tutti gl’impieghi pubblici, esclusi soltanto, se non vi siano ammesse espressamente dalle leggi, quelli che implicano poteri pubblici giurisdizionali o l’esercizio di diritti e di potestà politiche che attengono alla difesa dello Stato”.

Eccezione importante perché le donne in magistratura sono state ammesse solo nel 1963 (le otto vincitrici del primo concorso, ricordiamole, furono Graziana Calcagno, Emilia Capelli, Raffaella d’Antonio, Giulia De Marco, Letizia De Martino, Annunziata Izzo, Ada Lepore, Gabriella Luccioli).

Lidia Poët invece nel 1922 fu la presidente del Comitato pro voto donne di Torino e fece in tempo a vedere finalmente le donne alle urne: morì a 93 anni nel 1949. Le dobbiamo parecchio… e ben vengano le serie che ci ricordano tutte le donne a cui dobbiamo molto.

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