C’è un penoso scoramento negli occhi e nella voce di Giorgio Tirabassi, quando nell’ultima puntata di La linea verticale (Mattia Torre, 2018) confessa agli altri pazienti e compagni di letto di oncologia l’eventualità di dover rinunciare alla carne (e al pesce), e l’ansia di diventare vegetariano. Teme di dimenticare i sapori dell’arrosto, dell’abbacchio, del pescespada. La scena è tragicomica. Segue un elogio della cucina italiana – mediterranea, onnivora, senza eguali nel mondo – e delle sue erbe e spezie. Un buon monologo, questo di Tirabassi, convincente e a tratti commovente. Ma la dieta mediterranea potrebbe essere tutt’altro che ideale.

Quanto l’affermazione di un tipo di alimentazione dipende dalla sua reale salubrità, e quanto da abitudini, stereotipi e gusti personali o collettivi?

Dieta inquinata

Sabina Bietolini è biologa nutrizionista con un dottorato in Scienze della salute a La Sapienza di Roma, e professoressa a contratto presso Unicusano. Nel corso di un’intervista telefonica ha decostruito alcuni luoghi comuni sulla dieta cosiddetta onnivora che comprende, tra gli altri alimenti, il pesce – e ne fa, anzi, la sua punta di diamante. La critica di Bietolini è rivolta, anzitutto, al presunto valore della dieta mediterranea.

«Se non parliamo di qualità degli alimenti, parliamo del nulla» afferma. «Il livello degli inquinanti negli ultimi venti anni è aumentato esponenzialmente. Il pesce sarà pur l’alimento proteico predominante nella dieta mediterranea, ma è immerso negli inquinanti».

E aggiunge:

«Non puoi parlare di dieta se non parli di inquinanti. Un inquinante, come è comprensibile, trasforma persino l’acqua in veleno. Perché non dovrebbe valere per il pesce? Nel mare troviamo tutto: gli scarichi di coltivazioni e allevamenti intensivi ma anche di produzioni industriali, tantissima plastica (diossina, composti della diossina, bisfenoli, ftalati, micro e nanoplastiche…). Se il pesce vive nel mare inquinato come fa a non contenere inquinanti? Il pesce nasce e si replica in un ambiente inquinatissimo. Parlare di dieta mediterranea e non parlare di inquinamento è quantomeno poco scientifico».

L’attenzione, quindi, va posta su rischi e benefici di una dieta, non sulla sua popolarità.

«Qual è la convenienza di mangiare qualcosa che potrà anche apportare proteine, omega 3 e quanto altro… se ci sono pure gli inquinanti? Devo mettere sulla bilancia pro e contro» osserva la professoressa. «Dobbiamo restringere la maglia nella scelta di cosa è oggi il cibo. Non possiamo essere approssimativi… altrimenti facciamo danni all’ambiente, agli animali e – se degli animali davvero non ci importa – facciamo danni a noi stessi. Le proteine possiamo prenderle da un’altra parte. Perché consumare così tanti inquinanti pur di assumere le proteine?».

Sabina Bietolini pratica da venticinque anni una dieta vegetale, perché non è vero, spiega, che bisogna mangiare carne o pesce, latte, formaggi o uova per star bene:

«Non è necessario. Non esistono alimenti indispensabili. Esistono nutrienti essenziali. Al corpo importa solo ricevere tali nutrienti, non la loro provenienza. Il corpo ha bisogno di calcio, proteine, ferro, sì… ma chi l’ha detto che devono provenire da un animale? Non è vero».

Quindi la scelta di una dieta vegetale. Vegetale, non vegan. La differenza sta nella concezione e nell’utilizzo del termine: vegan è uno stile di vita, osserva Bietolini, e riguarda una scelta che si estende al vestiario, ai prodotti per l’igiene, eccetera. Inoltre, a suo avviso, vegan è un termine che allontana le persone e crea diffidenza. È necessario cambiare strategia se s’intende promuovere pratiche alternative, e parlare di alimentazione vegetale è corretto.

La dieta vegetale

«Verdure cotte e crude, cereali e legumi, semi oleaginosi, alghe, frutta fresca e a guscio. Questa è la dieta vegetale, che comprende i grandi gruppi che devono essere presenti tutti i giorni sulla tavola».

Bietolini sottolinea che, se nella dieta onnivora sono presenti una trentina di alimenti («le persone poi fanno una selezione, ne mangeranno una quindicina»), nella scelta vegetale «c’è una varietà estrema, che arriva anche a numerare una cosa come un centinaio di alimenti differenti. Di questi, almeno una quindicina devono essere presenti tutti i giorni. Il profilo nutrizionale del centinaio di alimenti vegetali è talmente diverso che, inserendone tanti, ruotandoli e variandoli sempre, si possono soddisfare i bisogni individuali».

Non esiste un decalogo, aggiunge, ma il buon senso.

In merito al rischio di anemie, la professoressa precisa:

«Ci potranno essere carenze di vitamine D e B12, in alcuni casi omega 3. Ma qualora la persona viva come natura vuole, diciamo, ovvero a contatto con un orto o un giardino, essendo la B12 di contaminazione batterica non necessariamente occorrerà integrarla – magari se ne controllano i livelli con esami ematici periodici. E in relazione alla vitamina D, il nostro corpo la autoproduce esponendosi al sole, quindi potrebbe non aver bisogno di integratori. Viviamo in modo non naturale e se a uno stile di vita non naturale si aggiunge un’alimentazione non naturale, come quella onnivora, allora…. Non facciamo niente secondo natura, quindi ci ammaliamo. Tornare indietro, capire chi siamo e da dove veniamo è la prima cosa».

Il mito dell’essere umano carnivoro

I detrattori della scelta vegetale direbbero: l’essere umano mangia carne e pesce dall’alba dei tempi. Leggendo Il grande mare di David Abulafia (Mondadori, 2014), poderoso saggio sulla storia del mar Mediterraneo, apprendiamo in effetti che le prime tracce dell’essere umano coincidono con i resti delle specie uccise e mangiate. I ritrovamenti dei primi insediamenti umani, nei pressi della Roma moderna, 435 mila anni fa, mostrarono tracce di carne di rinoceronte, cervo, coniglio, cinghiale. Le più antiche prove della nostra esistenza di specie sono testimonianze di morte. L’essere umano paleolitico era raccoglitore-cacciatore – un binomio, inscindibile, secondo le comuni scienze etno-antropologiche – e il suo stile di vita basato su caccia, pesca e raccolta.

Dall’archeologia al mito (o, se preferibile, alla religione), nella Bibbia ebraica, prima del diluvio universale (nonostante l’offerta di Abele, che dio preferì a quella di Caino, fosse di animali uccisi), uomini e donne erano vegetariani. In una versione della Genesi persino gli animali lo erano, secondo la ricostruzione di Chiara Frugoni in Uomini e animali nel Medioevo (il Mulino, 2018). Nel Libro di Isaia (11,6) il profeta narra:

«La vacca pascolerà con l’orsa, i loro piccini giaceranno assieme, e il leone mangerà lo strame come il bue».

L’uomo ha iniziato a mangiare carne quando non poteva più sopravvivere solo con la raccolta, quando la specie era a rischio estinzione – obietta Sabina Bietolini.

«Noi siamo raccoglitori, anche dal punto di vista della struttura anatomo-fisiologica. Mangiare carne è stata per l’uomo una soluzione di emergenza. Le condizioni sono cambiate oggi. È un falso storico dire che l’uomo mangia carne da sempre. Ci sono idee molto confuse. E le bugie fanno comodo a chi produce carne – ed è ovvio. […] Ci sono molti studi di antropologia a dimostrazione di ciò, basta leggere. Eppure la gente fa prima a dire “No… no… la carne serve”, perché a nessuno piace rinunciare a cose che piacciono. La braciola piace a tutti».

Una questione di gusto, e non di natura

In Se niente importa, Jonathan Safran Foer si chiede perché il gusto sia dispensato dalle regole etiche che governano gli altri sensi. E scrive, più in là nello stesso libro:

«Modificare la nostra alimentazione e far svanire certi gusti dalla memoria rappresenta una specie di perdita culturale […] ma forse vale la pena di accettare, se non addirittura di coltivare, questo genere di dimenticanza […]. Per ricordare gli animali e l’importanza che ha per me il loro benessere, forse devo perdere alcuni gusti e trovare altri appigli per i ricordi che un tempo mi aiutavano a conservare».

L’ansia del personaggio interpretato da Giorgio Tirabassi, e la nostra, tutto sommato, non hanno ragion di essere.

Edward Hicks, Peaceable Kingdom (particolare), 1830-1832, The Metropolitan Museum of Art,
New York, fotografato da Regan Vercruysse (flickr/CC).
Condividi: