Nei dettagli di un luogo si nasconde un certo tipo di fascino sensoriale che cattura i nostri sensi imprimendo nella nostra mente un’immagine indelebile. La silhouette metallica della Torre Eiffel illuminata dalla luna, i muscoli marmorei del David di Michelangelo, le sfumature di colori elettrici di un’aurora boreale: ognuno di questi particolari evoca nella nostra mente l’immagine di un luogo ben preciso, definito nello spazio e nel tempo.

Ne Le città invisibili, Italo Calvino manipola il significato delle parole come per asservirle alla materia in un’opera la cui struttura narrativa si può quasi toccare. Ispirandosi al Milione di Marco Polo, lo scrittore ligure fantastica sui viaggi del giramondo veneziano muovendolo come una pedina su un atlante immaginario, incastonando i racconti di quei luoghi in una cornice di dialoghi fra Polo e Kublai Khan. L’autore quasi si prende gioco del lettore impegnato a svelare il discorso segreto, le prospettive ingannevoli che si nascondono dietro queste storie. Ma Calvino non racconta semplicemente delle storie. Riordina i riverberi emotivi della nostra condizione umana in cinquantacinque descrizioni di città immaginarie, raggruppate in undici nuclei tematici: le città e la memoria, i segni, il desiderio, gli occhi, gli scambi, il cielo, il nome, i morti; città sottili, continue e nascoste.

Ognuna di esse porta il nome di una donna: Raissa è una città infelice che contiene una città felice che nemmeno sa di esistere, a Tamara l’occhio non vede cose ma figure di cose che significano altre cose, a Cloe le persone che passano per le vie non si conoscono, al vedersi immaginano mille cose uno dell’altro: gli incontri che potrebbero avvenire, le conversazioni, le sorprese, le carezze, i morsi.

Il lettore si immedesima nell’imperatore dei Tartari che, ascoltando i resoconti di quei viaggi, si accorge della nostalgia di Marco Polo e del suo desiderio di rivivere il passato. Fra tutte le città infatti ce n’è una che non ha mai menzionato: Venezia. In ognuna di quelle città c’era un po’ di Venezia, il punto di partenza al quale Calvino aggiunge e sottrae elementi per costruire un’immagine del mondo che riflette quella dell’uomo.

Ci sono voluti molti anni prima che il Gran Khan si rendesse conto che quello di Marco Polo era un viaggio nella memoria e che l’esploratore non descriveva le città tanto quanto la mente umana e l’esperienza. Si rese conto che ogni città immaginata da Polo non è altro che l’insieme di tutti i sogni e tutte le paure che prendono forma dalla mente umana, dall’ambizione umana, dal desiderio di un futuro che può essere modellato. Ha imparato che se uomini e donne iniziassero a vivere i loro sogni effimeri, ogni fantasma diventerebbe una città invisibile in cui iniziare una storia di inseguimenti, pretese, incomprensioni, scontri, oppressioni e la giostra delle fantasie si fermerebbe.

Pubblicato per la prima volta nel 1972, il romanzo si avvicina a un tipo di scrittura che potrebbe essere definita combinatoria poiché il meccanismo di scrivere assume un ruolo centrale all’interno della produzione. Negli anni Sessanta l’autore aderì al movimento di Raymond Queneau, l’OuLiPo una “officina di letteratura potenziale”, definendo la stessa come la “ricerca di nuove strutture e schemi che possano essere usati dagli scrittori nella maniera che preferiscono“.
Sotto l’influsso dello strutturalismo, della semiologia e delle lezioni di Roland Barthes sull’ars combinatoria, Calvino si perde nell’architettura di città concettuali, costruite non con l’acciaio e il cemento ma con le idee. Ognuna di esse rappresenta un esperimento mentale in cui il confronto con se stessi appare inevitabile, in una dimensione temporale frammentata in un presente eterno costituito dalla ripetizione di istanti. La natura gioca un ruolo fondamentale poiché molti elementi simboleggiano i sentimenti e gli stati d’animo tipici dell’uomo: le dune del deserto diventano l’emblema della confusione, il volo degli uccelli della leggerezza dietro la quale si nasconde la felicità.

Le città invisibili è un romanzo per chi è sempre altrove, per chi vuole sfuggire all’ingorgo di passato presente futuro che blocca le esistenze calcificate nell’illusione del movimento.
L’infelicità si trova nell’incapacità di scappare, ma se l’ultimo approdo non può che essere la città infernale allora scappare è inutile.

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

Edizione di riferimento: Italo Calvino, Le città invisibili – Mondadori 2018
Per ulteriori approfondimenti sulla concezione temporale si vedano le opere di Gilles Deleuze.

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