Ho visto recentemente due estratti di interviste, una ad Arthur Rubinstein, l’altra a Marlon Brando, in cui l’intervistatore poneva ad entrambi la stessa domanda: “cosa pensa del fatto di essere considerato il più grande pianista/attore di tutti i tempi?”.

In entrambi i casi la risposta è stata la medesima: la domanda è stupida perché l’arte non può essere misurata in questi termini, non c’è uno che vince e uno che perde, uno che è più bravo degli altri perché batte qualche record, come nello sport. C’è qualcosa di profondamente arcaico in questa convinzione ma essa rivela anche qualcosa di tremendamente vero sulla nostra condizione odierna.

Qual è la risposta esatta?

Pensiamo a quella domanda e proviamo a dare una risposta esatta che non svicoli, come fanno i due grandi artisti sopra citati, in direzione dell’imponderabile. Ebbene, una classifica che registrasse le vendite e il gradimento di pubblico in modo oggettivo, ad es., sarebbe veritiera ma solo perché misurerebbe il rendimento dell’investimento, della performance, senza dir nulla della qualità dell’artista (tranne che nell’aspetto tecnicamente misurabile relativo all’investimento stesso).

Quindi non direbbe chi è il più grande ma chi vende di più. Osserviamo di passaggio che non ce ne sono di classifiche così, ovviamente, perché il mercato è comunque distorto dagli oligopoli e dalle posizioni di privilegio che essi garantiscono a questo o quell’artista. Ma l’ipotesi di scuola serve a capire perché la domanda era senza senso e perché la risposta di Rubinstein e Brando è così tremendamente inattuale.

Quello che conta è la performance

Oggi, infatti, la differenza tra questi due piani del discorso non è nemmeno più avvertibile. Difficile indicare la differenza tra essere grandi artisti ed essere sulla cresta dell’onda in un mondo in cui l’arte è ridotta a prestazione e l’artista a performer.

Il mondo della bellezza trapassa in quello dell’efficienza: capita di vedere film o documentari di vent’anni fa e avvertire la pesantezza di un montaggio che non seguiva ancora i ritmi a mitragliatore di oggi.

Tutto deve essere esteticamente funzionale, fruibile, veloce, senza sbavature. I tempi di visualizzazione e fruizione dei contenuti, specie sui social, si accorciano all’inverosimile. Anche scrivendo questo post mi preoccupo di non aggiungere troppe parole per non stancare il lettore frettoloso.

Siamo diventati tutti funamboli di un circo che corre sempre più velocemente e che lascia impietosamente indietro chi non sa stare ai suoi ritmi e ai suoi criteri di bravura.

Ma questa bravura, misurata in modo esatto, è solo l’altra faccia di ciò che è spendibile: l’investimento deve rendere, e solo se l’arte si lascia smembrare e ricomporre sulla catena di montaggio della cultura può sperare di vendere.

Una delle mistificazioni più devastanti prodotte dal capitalismo è infatti evidente nella struttura dei talent show che hanno introiettato completamente questa logica della performance, e l’hanno tradotta in termini di una immaginaria qualità (musicale, canora, scenica ecc.).

Gli artisti devono tutti corrispondere a dei criteri di perfezione che si adattano, sì, ai vari generi ma che per poter essere giudicati devono per forza conformarsi ad un metro e a delle regole prestabilite. E’ un segreto di Pulcinella il fatto che oggi ben pochi musicisti che hanno fatto la storia della musica passerebbero le selezioni di un talent.

Kurt Cobain sarebbe troppo introverso, Bob Dylan e Lucio Battisti non saprebbero cantare, Paul McCartney non saprebbe ballare. Coloro che hanno regalato al mondo la bellezza che lascia senza fiato e che hanno potuto farlo solo rompendo le regole ora diventano dei principianti rispetto ai professionisti dello show (cioè di qualcosa che arriva già impacchettato nella forma di merce).

E i musicisti devono contendersi il giudizio di questi ragionieri dell’arte lottando all’ultimo sangue per farsi notare. Così la musica diventa agonistica come lo sport, la performance sublima la lotta per la sopravvivenza sul mercato e la trasforma in valore estetico.

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