E’ certo che dopo due durissimi anni di pandemia la comunità strombolana che vive di turismo non avrebbe davvero avuto bisogno, all’inizio della stagione estiva, di un momento di popolarità legato non già alle sue bellezze ma all’improvvida gestione di un incendio acceso per girare una fiction televisiva – ironia della sorte – proprio sulla Protezione Civile e colpevolmente lasciato andare fuori controllo in un giorno di fortissimo scirocco finendo per distruggere interamente la vegetazione tutta intorno al paese di Stromboli.

Avveniva il 25 maggio scorso e la notizia è andata per giorni su tutti i giornali e notiziari nazionali. Io sono arrivato a Stromboli con i miei studenti del corso di Vulcanologia dell’Università Roma Tre appena due giorni dopo.

L’isola adesso è nera, come le sue rocce vulcaniche. Il vulcano, certamente se la ride sotto i baffi, visto che questa volta non sono stati i suoi lapilli incandescenti i responsabili di tanta furia incendiaria.

Parlando con gli amici isolani mi sarei aspettato una forte rabbia nei confronti dei responsabili dell’incendio (che peraltro ancora attendono di essere identificati con certezza dalla magistratura).

Invece la rabbia c’era, ma perché di fatto il paese lo hanno dovuto salvare loro, gli strombolani, in una notte di lotta contro il fuoco, tutti fuori a bagnare i giardini, a scavare con le pale, soli nell’isola dove gli aerei canadair possono arrivare solo di giorno e non esiste un presidio di vigili del fuoco.

Ecco si, questa è la punta dell’iceberg (o della fiamma!). I giornali nazionali si sono divertiti a giocare la carta dell’incendio perché la fiction ha una protagonista ben nota e la committenza è Rai. Ma nessuno si è occupato del punto essenziale che riguarda Stromboli.

Sull’isola infatti gli incendi ci sono stati e sempre ci saranno, perché durante le esplosioni dette maggiori e quelle vulcaniane, che avvengono le prime con frequenze di qualcuna all’anno e le seconde con frequenze di una ogni dieci anni circa, i blocchi e i lapilli incandescenti vengono lanciati oltre la cresta del Pizzo che protegge il paese e copre alla vista i crateri, e rotolando possono raggiungere la vegetazione fatta di canne, arbusti e giovani alberi della macchia mediterranea che immediatamente prendono fuoco.

Fu così il 3 luglio 2019 quando l’eruzione vulcaniana più grande del secolo mise a fuoco istantaneamente quasi tutta l’isola. All’epoca la fortuna fu che non c’era vento e per giorni i canadair poterono lavorare nelle ore diurne senza timore che il fuoco scendesse di notte velocemente verso le case.

Eppure un giovane morì proprio perché, colto di sorpresa dall’eruzione, fu improvvisamente costretto a correre in mezzo all’incendio e un po’ per il calore, un po’ per il fumo e forse anche per il grande panico ebbe un collasso.

Nonostante ciò, a distanza di tre anni non esiste ancora un piano incendi per l’isola, non ci sono linee tagliafuoco, non c’è un presidio fisso dei vigili del fuoco, non ci sono impianti idrici adeguati. E i danni sono stati seri anche per la rete di monitoraggio vulcanico dell’isola che conta molti strumenti andati in fumo.

Se da un lato dunque gli incendi sull’isola non hanno certo bisogno dell’aiuto umano, che dunque va giustamente stigmatizzato, il vero problema è che, come spesso accade nel nostro paese, la cultura della prevenzione è dura a farsi strada.

Magari questa volta vista la risonanza mediatica qualcuno ci penserà, ma è più facile ahimè che passata ‘a nuttata si torni al solito fatalismo, io… speriamo che non accada. Sull’isola peraltro ci sono altre cose da mettere a posto, come l’assenza di una copertura telefonica degna di questo nome, che in caso di emergenza comprometterebbe seriamente la capacità di raggiungere tempestivamente i residenti e i turisti.

All’occhio del geologo l’isola bruciata e senza più l’intrico di canne e arbusti mostra adesso un paesaggio mai visto, con affioramenti di rocce che possono farci capire meglio la storia del vulcano.

Ma il segno più evidente che è riemerso dalle ceneri è l’incredibile rete di muretti a secco che terrazzavano l’isola quando l’agricoltura era l’unica fonte di sostentamento. Ricordo con chiarezza che subito dopo l’eruzione del 2019 mentre tutto il versante di Ginostra era bruciato, l’unica area rimasta verde era l’azienda agricola che da alcuni anni ha rimesso a posto i terrazzamenti che accolgono olivi, viti e alveari.

Si perché un terrazzo agricolo ben tenuto è un tagliafuoco naturale. Mi chiedo allora se a Stromboli come in tante altre isole e zone a tradizione agricola d’Italia, non si possa realizzare una progettualità con fondi come quelli europei o del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) che consenta agli abitanti locali di trovare motivo (anche economico!) di recuperare quelle tradizioni agricole, riscoprendo non solo la vocazione del territorio, ma realizzando al tempo una potente rete di prevenzione dagli incendi, che con il cambiamento climatico stanno di anno in anno diventando sempre più aggressivi.

Tra qualche giorno riparto per Stromboli, questa volta per la Festa di Teatro Ecologico, giunta quest’anno alla sua ottava edizione (dal 25 giugno al 4 luglio), il cui tema, nel centenario della nascita di Margherita Hack, è Corpi Celesti.

La sfida di questa festa è quella di immergere gli artisti nel contesto dei luoghi naturali dell’isola senza ausili che non siano le voci e i corpi. Quest’anno, con l’isola bruciata, sarà una sfida ancor più imprevedibile del solito. Ma della creatività e capacità trasformativa degli artisti sono certo. Ne saranno altrettanto capaci gli amministratori e chi deve occuparsi della sicurezza dell’isola, Faro del Mediterraneo?

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