Maschio 2025: quanta strada hai da fare! Mascolinità tossica?
"La mascolinità è tossica?", si domanda Andrew Smiler nel titolo del suo interessante saggio. Ovviamente la risposta è no.

"La mascolinità è tossica?", si domanda Andrew Smiler nel titolo del suo interessante saggio. Ovviamente la risposta è no.
La mascolinità è tossica?, si domanda Andrew Smiler nel titolo del suo interessante saggio uscito in italiano per i tipi di Nutrimenti all’interno della collana The Big Idea. Ovviamente la risposta è no, semmai è tossico anzi tossicissimo il modo in cui oggi la si vive.
Ho già toccato temi analoghi in uno dei miei video, quando questo blog era vlog, ma oggi ci torno volentieri perché i tempi sono maturi per prendere il discorso alla lontana e definirlo in tutti i suoi estremi.
Partiamo dal punto focale: la mascolinità è a rischio di essere vissuta in modo tossico perché la società, pur evolutasi per tante fattispecie, si ostina a legittimarne esclusivamente la modalità ipertestosteronica.
Chiunque non abbia questa caratteristica viene escluso, deriso, delegittimato fino a essere considerato un errore della natura, se non persino – in contesti fanatico-religiosi – creazione di Satana. Dal che gli uomini sviluppano la tendenza a fingere, ad atteggiarsi a superman e a rigettare qualsiasi condotta inidonea a mettere in luce la loro presunta ipertestosteronicità.
Nel corso del tempo questo trend si è ammorbidito. Sono lontani, per esempio, i decenni in cui non si vedevano maschi nei supermercati o in giro per le strade a spingere i passeggini dei figli. E allo stesso modo sono tramontati gli anni Ottanta e i loro edonismi sessisti (Paul McCartney ammise di averci dovuto pensare tanto prima di licenziare la canzone Here Today, in memoria di John Lennon ucciso due anni prima, con la frase I love you rivolta a lui, a un uomo).
Però se da un lato la grammatica dei sentimenti si è aggiornata, dall’altro la pervasività dei mezzi di comunicazione fa incombere su noi tutti uno spotlight permanente, e ciò si rivela esiziale per il maschio che cerca di conquistare la libertà di esprimersi, di lasciarsi andare al di là delle convenzioni.
Perché, vedete, il problema sta tutto qui, nella libertà di lasciarsi andare. L’uomo oggi non ce l’ha.
Cominciamo parlando dai vestiti, dato che tutto – per incredibile che appaia – iniziò da qui. Guardiamo la storia della moda e prendiamo atto che per migliaia di migliaia di anni gli uomini si sono vestiti in modo che oggi sarebbe sbrigativamente definito femminile: abiti al ginocchio, chitoni, sandali, toghe e quant’altro. E non mi riferisco solo all’epoca greco-romana ma anche al medioevo (ove l’abito a sacco, sorta di tunica corta, era la divisa maschile ordinaria nelle campagne) e, udite udite, al rinascimento, in cui dominavano minigonne, calzamaglie, tessuti coloratissimi e scarpe scollate. Il tutto solo per gli uomini, voglio sottolinearlo, perché la donna era tenuta a coprirsi.
Anche quando la gonna maschile cadde in disuso, nel corso del XVII secolo, ciprie, parrucche, velluti sgargianti e calze di seta sottolineavano la vanità del sesso forte e la esprimevano egregiamente.
Poi, all’improvviso, tutto questo cessò e, nel XIX secolo, le prime fotografie ci illustrano un uomo dimesso, vestito con giacche e pantaloni privi di gusto, di eros e di colore.
Per rispondere bisogna risalire al 1769, quando in Inghilterra venne inventata la macchina a vapore, che sulle botteghe artigiane ebbe un poderoso effetto moltiplicatore di produttività. Nacquero le industrie, che si diffusero a macchia d’olio cambiando per sempre il modo di lavorare. L’Inghilterra divenne, nel giro di vent’anni, il Paese più ricco del mondo, e oltremanica i rivoluzionari giacobini si fecero venire un’idea geniale: fomentarono la rabbia di un popolo alla fame con un messaggio che, al di là del motto «Liberté, Egalité, Fraternité», si sostanziava nell’incoraggiamento a lavorare duro, perché con la nuova tecnologia chiunque poteva finalmente diventare «re» in termini di ricchezza semplicemente facendo carriera.
Da allora in poi, sino al «nostro» Ottantanove, anno d’inizio della Globalizzazione, venti generazioni hanno vissuto guardando al futuro e sfidandolo per costruirselo migliore.
Eccitati dalla prospettiva della ricchezza e del potere, gli uomini imposero alle donne un baratto:
• Vi lasciamo le parrucche
• Vi lasciamo le ciprie
• Vi lasciamo gli abiti sgargianti
• Vi lasciamo i velluti
• Vi lasciamo i tacchi (li usavano gli uomini per esprimere nobiltà)
• Vi lasciamo la bellezza
• Vi lasciamo la moda
Purché voi lasciate a noi LA CARRIERA.
Risultato: per la prima volta in cinquemila anni di Storia documentata, gli uomini adottarono un unico codice di abbigliamento: il lutto. E così attraversarono tutto l’Ottocento e approdarono nel Secolo Breve.
Fino a quando la donna iniziò a liberarsi. Non dal maschio, bensì dal baratto bellezza-carriera.
Oggi siedono in qualsiasi tipologia di posto decisionale: presidenti, amministratrici delegate, dirigenti, ministre, parlamentari, professioniste.
E il maschio? Be’, dopo aver provato in ogni modo a impedire alla donna di sconfinare nel suo lato d’esclusiva (la carriera) si ritrova da solo, succube del sistema da lui stesso inventato e imposto.
Deve dunque recuperare la propria bellezza. Tutta, soprattutto quella interiore. Deve, in altri termini, riprendere a lasciarsi andare, a esprimere la propria umanità a tutto tondo distaccandosi dal truce pregiudizio ipertestosteronico.
Quando ciò accadrà, gli uomini smetteranno di invidiare e odiare le donne, la comunicazione fra i due sessi si distaccherà dalla stasi, sempre inibente e a volte tragica, in cui attualmente versa, e sono pronto a scommettere che anche la vita media maschile – oggi di cinque anni inferiore a quella femminile – si innalzerà.
Spoiler: nessuno di noi vedrà quel giorno. Purtroppo.