Cosa ci insegnano i tanti Masterchef in circolazione? La megaproduzione Endemol è sempre diversa a seconda del paese dove è girata. Sarà perché sono a dieta e mi consolo così; sarà perché aspetto l’autunno e Masterchef segnala anche la stagione arancione.

Ma insomma mi sono messa a guardare tutti i vari Masterchef disponibili su Now Tv (pacchetto Sky) oltre a vari concorsi di cucina britannici (Netflix). Tutte edizioni passate, un sacco di volti di vincitori e vicecampioni che sono diventati, ho scoperto, influencer culinari su TikTok e Instagram (per esempio Beccy Stables, vincitrice a soli 19 anni di Masterchef Canada 2018, inossidabile di fronte ad ogni emergenza e grande pasticciera).

Masterchef, più che un programma, è un culto diffuso in molti paesi su quattro continenti (America, Europa, Asia, Oceania) più il Marocco: se vi diverte, questa è la pagina riassuntiva di Wikipedia. Oltre al concorso maggiore, che raduna un certo numero di aspiranti chef sottoponendoli a prove iniziatiche (la Mystery Box; il Pressure test per le eliminazioni; le giornate in esterna eccetera), ci sono anche degli spinoff: Masterchef junior per i ragazzini, Masterchef Celebrity…

Tuttavia Masterchef non è tutto uguale, anzi muta moltissimo a seconda dei paesi. Nasce nel 1990 in Gran Bretagna, da lì si estende a macchia d’olio, celebre la versione statunitense con i giudici Gordon Ramsey e Joe Bastianich, che poi ha fatto anche numerose edizioni in Italia.

Da noi la prima stagione è del 2012, e della giuria originaria solo lo chef Bruno Barbieri è ancora nello show. I giudici sono essenziali per stabilire il tono di ogni edizione nazionale e di ogni singolo anno. Scorbutici, simpatici, incoraggianti o raggelanti; in teoria sono lì per insegnare oltre che giudicare.

Ora, va da sé che uno chef in carriera che passa 14 ore al giorno nella sua cucina non ha tempo per fare Masterchef: le giurie sono popolate da chef che hanno ormai catene di ristoranti, ai fornelli ci stanno poco, sono diventati imprenditori anche di loro stessi. In certi casi, sono chef alla ricerca di revamping della loro notorietà. O critici gastronomici.

Perché lo show funzioni la giuria deve avere una sua alchimia; ma a fare ogni Masterchef ci sono evidentemente anche delle indicazioni di produzione che si basano su un’analisi di quello che richiede il mercato nazionale.

E qui la cosa si fa interessante. Le formule sono diverse: per fare un esempio, Masterchef Canada mette a concorso dodici persone e le elimina rapidamente, in una decina di settimane (e mette un’enfasi intollerabile sulle reclame ai prodotti usati in gara dalle pentole ai fornelli). Masterchef Australia è un’avventura gigantesca che parte con una pattuglia di 24 concorrenti e conta una sessantina di episodi (in onda varie volte a settimana).  Ci sono vari aspetti da considerare: il cibo, il tipo di concorrenti, l’atmosfera dello show.

Nell’edizione italiana, i giudici tendono a stimolare l’ostilità fra i concorrenti. All’indomani di una prova a squadra chiedono ai perdenti di chi sia stata la colpa (seguono ritorsioni e rappresaglie). Le interviste ai concorrenti lontane dai fornelli (mi pare d’aver capito che vengano realizzate fra la preparazione dei piatti e l’assaggio, quando il verdetto è ancora ignoto e le emozioni sono alte), mirano a segnalare antipatie reciproche e progetti di vendetta.

Vengono sottolineate idiosincrasie e intolleranze, esasperate e ripetute. La selezione è dura: nelle prove delle Mystery Box, quando i concorrenti devono cucinare con quel che si trovano nella scatola segreta, vengono scelti solo tre piatti che saranno assaggiati dai giudici (quelli che a occhio sembrano più interessanti), sicché tutti gli altri cuochi hanno faticato invano.

Nell’edizione spagnola invece regna la bontà, con Jordi Cruz, Pepe Rodríguez (chef di El Bohío, Illescas) e Samantha Vallejo-Nágera (titolare del catering Samantha de España) che somministrano incoraggiamenti, abbracci e pacche sulla spalla.

Saltiamo in Australia, ed entriamo in un mondo di sorrisi e reciproca simpatia. Molto contano i tre giudici attuali: lo chef australo-italo-scozzese Jock Zonfrillo, la critica gastronomica Melissa Leong originaria di Singapore – e Andy Allen, ora chef affermato e vincitore dell’edizione 2012.

Suggerimenti ed elogi continui ai concorrenti, assenza di ogni atteggiamento sprezzante, invito finale in ogni puntata a “go home, rest and be kind to each other”. Evidentemente il pubblico australiano vuole meno coltelli fra i denti e più relax; gli aspiranti chef australiani sono un esercito ma i loro piatti sono sempre tutti assaggiati. I concorrenti sono incoraggiati ad aiutarsi, fra abbracci e pianti per le eliminazioni.

Poi, il cibo che varia con le latitudini; la cucina italiana e francese è sempre presente, ma come anche nei programmi culinari britannici, assume un peso enorme la gastronomia asiatica. Masterchef è sempre stato anche in Italia un programma inclusivo, che cerca di presentare programmaticamente aspiranti chef di origine straniera. In edizioni come quella canadese e soprattutto australiana – non parliamo poi della britannica – la cosa è lampante.

In Australia si susseguono concorrenti di origine italiana, ma anche tailandese, vietnamita, cinese, indiana, srilankese (anche gay e lesbiche con le loro ricche e composte famiglie, ma questa è un’altra storia, noi italiani ancora non ci siamo arrivati). Abbondano i curry, le spezie, un mix di aromi inebrianti che fa venir voglia di andare a prendere lezioni di cucina asiatica.

Si sottolinea l’importanza della diversità, l’orgoglio di essere australiani e anche qualcos’altro, e di rispettare le radici del territorio. Questo significa pagare pegno ai disastri del colonialismo, andare a cucinare nelle terre degli aborigeni con gli ingredienti indigeni nel panorama roccioso di Uluru nell’edizione 2021.

Alla fine di una maratona simile, non se ne può più di cibo e di una serie di frasi fatte (l’equilibrio dei sapori, assaggia sempre tutto, packed full of flavors, le note di acidità…) A me resta un dubbio, triste: ma perché in Italia sentiamo l’esigenza di uno show più acrimonioso? Non è un caso se penso alle spire di questa asfissiante campagna elettorale e dell’atmosfera per le strade d’Italia. Non è un caso, e non è un bene, incrociamo le dita.

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