“Ora ti farò una serie di domande e non ci sono risposte giuste o sbagliate: come si fa un film sul futuro?”.
“Beh, si può chiedere ad esempio: quando pensi al futuro, come te lo immagini?”.    

Ed è così che fa, nel film C’mon C’mon, un giornalista radiofonico in viaggio per l’America che raccoglie delle testimonianze dei giovani sul futuro. Un’idea che ricorda molti film, dai comizi d’amore pasoliniani al recente e collettivo Futura.

Tuttavia qui ad essere soggetto del film è chi domanda, e nel domandare viene educato: il film è la storia del breve periodo trascorso assieme di uno zio giornalista e suo nipote, la storia della sua educazione sentimentale permanente.

C’mon C’mon è un film drammatico diretto da Mike Mills e prodotto da A24, con Joaquin Phoenix e Woody Norman, e vanta già numerose candidature a vari premi internazionali come il Gotham Indipendent Film Awards. 

Il film è un’opera ibrida come molte altre di questi ultimi anni che viaggia fra documentario e fiction in combinazioni sempre nuove. Il rapporto con i bambini al cinema può essere strumentalizzato, svilito o reso quasi ridicolo (pensiamo a I bambini sanno di Veltroni) ma qui è il tramite espressivo di un continuo interrogarsi, di un commosso processo di apprendimento, perché siamo un po’ tutti star child di questo mondo inspiegabilmente bello.

E in questo movimento autenticamente dialettico (non a caso arriva l’ormai abusato romantico Chiaro di luna di Debussy, ma qui è teneramente malinconico) il domandarsi non finisce, non può finire perché non ci sono ulteriori fini.

A momenti sembra di trovarsi in una trasposizione di Siddharta che è chi cerca, solo che per cercare è meglio essere in tantə. In questo tentativo di prefigurazione ad andamento orizzontale, come quando si esplora una mappa, si ingrandisce, poi si torna a esplorare, una chiave per il futuro ci viene mostrata: la cura. 

Un film sulle donne che reggono il mondo, sulle madri a cui affidiamo “il peso di tutto ciò che è più duro da comprendere sulla società e su noi stessi”, questo mondo che deve affrontare la crisi climatica.

In questo viaggio per l’America che riecheggia Alice nelle città e Paper moon, si  parte da Detroit che era il futuro per passare a New York e New Orleans, c’è la realizzazione che nessuno sa come si cura, “nessuno sa mai cosa fare coi figli”. Si può solo provare.

Le interviste spesso sono epifanie perché genuine, misurate: “cosa vogliamo? Io voglio divertirmi”; “nel XX secolo si reprimevano le emozioni”; “gli adulti vogliono comandare”; “penso che il mondo non sarà più pulito o facile da girare o respirare. Non sarà facile”.

Si passa dal paternalismo con cenni alla crisi climatica alla necessità di saper giocare, di dirsi la verità (un blah blah blah prima provocatorio e poi liberatorio) in un mosaico, le nostre vite, in cui “succede sempre quello che non ti aspetti” e quindi dobbiamo “camminare, camminare, camminare”, camminare domandando.

Ed è anche così che spesso penso al futuro, come un orizzonte da raggiungere che camminando si fa con lo sguardo capendo dove siamo e dove è meglio arrivare, insieme, magari in corteo.

Di Emanuele Akira Genovese per conto di Valeria Belardelli

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