Dopo aver dedicato alcuni passaggi ai dischi malinconici, ritorno stavolta sull’altra carrellata di album che rappresentano l’apice – dal punto di vista artistico, commerciale e della critica – di un genere musicale. Riguardo al sound del Brit Pop, genere pop rock britannico che in qualche modo tentava di filtrare in modo moderno le gesta dei Beatles e dei Rolling Stones, i suoi pionieri furono inizialmente gli Happy Mondays e gli Stone Roses che si affermarono già alla fine degli anni ’80.
Il loro successo, incoraggiò altri gruppi nati negli anni ’90 come Blur, Suede, Pulp, Supergrass, Verve e altri, a spingere l’acceleratore nella stessa direzione, ma il gradino più alto del podio a livello di mainstream planetario fu raggiunto dagli Oasis, che riuscirono letteralmente a sfondare. Il loro album di esordio Definitely maybe fu senza dubbio esplosivo, facendo da trampolino per proiettarsi verso la loro più alta vetta estetica di sempre col successivo (What’s the stor) Morning glory?.

I due fratelli Gallagher  – di Manchester – Liam (voce leader e frontman indiscusso) e Noel (deus ex machina) incominciarono sin da subito ad arricchire, con i loro litigi e i loro comportamenti su di giri, i tabloid inglesi fornendo alla band il necessario contorno di alcol e scazzottate che avevano aiutato a rendere immortali le gesta dei più grandi gruppi degli anni ’70. Sembrava tutto apparecchiato a tavolino, invece i dissidi fra i due erano (e tutt’ora lo sono) assolutamente veri e sinceri. Per nostra fortuna, quel corto circuito continuo (che avrebbe, con gli anni, portato alla definitiva rottura) servì anche da benzina per accendere la creatività degli Oasis che finirono col registrare una serie di successi irripetibile.

L’album si apre alla grande con doppia scossa elettrica della caotica Hello e la cavalcata rock Roll with it, che è come il cemento a presa rapida con quel suono sparato delle chitarre e una melodia radiofonica intrigante. Wonderwall, nettamente più calma ed acustica, è il singolo più venduto del brit pop e ancora oggi ad ascoltarla si capisce perché: la voce di Liam è cristallina e l’arrangiamento è rigoglioso con quegli archi che le forniscono quella cornice ideale per inebriare l’ascoltatore. Il climax generale sale ancora di un ulteriore gradino con la splendida Don’t look back in anger –cantata questa volta da Noel – che è forse la loro canzone più bella in assoluto, col suo incedere seducente e il pianoforte che le regala un mantello quasi epico.

In mezzo al disco troviamo il solido muro di riff e assoli rappresentato da Some might say (recentemente rivisitata in chiave acustica nel bellissimo live Unplugged di Liam Gallagher) che, non a caso, nei concerti ha sempre scatenato particolarmente il loro pubblico. In Cast no shadow si torna a sognare con una dolce ballata orecchiabile e le voci dei due fratelli mixate, in alcuni momenti, quasi allo stesso livello, mentre She’s electric si fa ricordare per il suo insolito (quantomeno rispetto al resto del disco) mood allegro. L’impetuosa Morning glory introdotta dal suono di un elicottero è un altro episodio vincente, ma il vero gioiello a mio avviso resta la conclusiva Champagne supernova. Nell’intro questa volta ci sono le onde del mare e, proprio come il mare, ti fa nuotare fra le sue acque inizialmente calme, poi letteralmente ti travolge nel suo mulinello elettrico del crescendo finale (molto Beatles, direi, soprattutto nei cori), da brividi!

What’s the story è certamente una pietra miliare degli anni ’90 che ha lasciato un segno nella storia del rock: ogni tanto fatevi un piacere, e riascoltatelo ad alto volume.

“Non sono come John Lennon, che credeva di essere l’Onnipotente. Penso solo di essere John Lennon” Noel Gallagher

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