Una chat nata su Telegram ha spostato la narrazione del conflitto israelo-palestinese dallo scontro al dialogo.

I social network possono stimolare il dialogo, mettere in circolo buone interazioni, immaginare relazioni e contrapporsi, se vogliono, alla narrazione del conflitto e dell’odio, per una narrazione di pace.
Negli ultimi mesi, in seguito al riaccendersi (purtroppo) dell‘escalation militare tra Israele e Palestina, un gruppo di persone si è ritrovato su Clubhouse, il nuovo social network basato solo su chat vocali, per confrontarsi su questo argomento. Chi entra può solo ascoltare oppure alzare la mano e parlare.

“Meet Palestinians and Israelis”

Una conversazione tra amici si è trasformata in un dialogo no stop andato avanti per oltre una settimana. Così è nata la chat vocale “Meet Palestinians and Israelis” all’interno di Balance, club gestito da Moshe Markovich.

“Ho iniziato una chat privata con amici e stavamo parlando di notizie recenti”

dice Moshe Markovich, il moderatore messicano di Balance, una stanza della Clubhouse che si concentra sulla buona conversazione.
La storia di questa lunga chat vocale arriva dal magazine Slate ed è stata inserita nello Story Tracker del Solutions Journalism Network. Attualmente, la conversazione raccontata da Slate è terminata, ma nuove chat vocali su questo confronto sono nate all’interno del Club The Peace Game fondato da un palestinese di Hebron e un israeliano di Tel Aviv.

Oltre la guerra: per il confronto

Come hanno raccontato i moderatori alla giornalista, non è stato sempre facile mantenere toni equilibrati, sereni e pacati. Hanno compiuto un lavoro enorme per tenere la conversazione lontana dalla rilettura della storia o della postura politica.
Uno degli elementi di novità è stato rappresentato dal fatto che i moderatori appartenevano a Paesi e religioni diverse. Oltre a israeliani e palestinesi erano presenti anche persone neutrali con il compito di interrompere e intervenire quando gli animi e le parole si accendevano.
La giornalista di Slate ha incontrato uno di loro, Hamza Khan.
Khan non è palestinese né israeliano. È un attivista pacifista musulmano americano che lavora da anni con palestinesi e israeliani.

“Ricordare a tutti che un trauma come questo non appartiene a nessuna narrativa specifica e a nessun partito è la chiave per aiutare a mantenere le conversazioni costruttive. Ma deve essere fatto nel modo più giusto e con tatto, rispettando le dinamiche culturali delle diverse comunità che vogliamo far dialogare”.

Si pensi che nei giorni più caldi del conflitto erano all’ascolto circa 1.500 persone. Nella settimana dal 18 al 23 maggio hanno partecipato oltre 286 mila persone.

Storie di tutti i giorni: senza pace

Di cosa si è parlato? Essenzialmente di storie, vite personali e sentimenti. Di paure e sofferenze. Di dolori e rabbia.
Una donna ebrea egiziana ha descritto di essere stata costretta ad abbandonare l’Egitto da bambina e di essersi trasferita in Inghilterra senza avere più nulla. Una donna di Gaza ha raccontato che il suo bambino, terrorizzato, si aggrappava a lei durante gli attacchi. Un’americana di origine palestinese ha descritto le complicazioni dei suoi viaggi per visitare la famiglia in Palestina, i diversi checkpoint e le perquisizioni. Un libanese ha descritto con rabbia la sua crescita nei campi profughi. Alcuni si sono opposti a gran voce all’idea di abbracciarsi. Altri piangevano.
Importante è stato cercare di mantenere toni morbidi, non incitanti all’odio e alla contrapposizione politica, strada, al contrario, spesso facilmente percorsa sui social network. Nel momento in cui qualche parola accendeva gli animi i moderatori riportavano la conversazione su toni dialogici e di comprensione. Uno dei partecipanti ha osservato che questa chat room è il negoziato di pace con più affluenza e partecipazione dai tempi dei difficili negoziati di Oslo del 1993.

Una stanza tutta per noi

Il piano originale prevedeva di chiudere la stanza dopo il cessate il fuoco ma è stata presa la decisione di andare avanti.

“Questo evento si è rivelato un momento storico di conversazioni empatiche e scambi personali e intimi. Ora vogliamo continuare a gestire questa stanza fino a quando non ci sarà la pace”,

ha raccontato Khan.
Non è una novità l’attenzione da parte delle persone nei confronti dei social durante i periodi di disordini e guerre. Nel 2011, durante la primavera araba, Twitter era la principale piattaforma utilizzata dai manifestanti per diffondere messaggi e condividere aggiornamenti.
“Nel 2011 ero all’ultimo anno di università, e ricordo di aver ascoltato gli aggiornamenti sulla primavera araba”, dice Harris. “C’era una sensazione di speranza mentre ognuno di questi diversi paesi stava avendo un momento. Sembrava che usando una piattaforma come Twitter avremmo visto effetti e cambiamenti. Non si è rivelato così promettente come sembrava. Spero che andando avanti, l’audio sociale e le piattaforme come Clubhouse abbiano ciò che serve per effettuare qualche cambiamento in futuro”.

“Il fatto che in questa vicenda senza via di uscita esista un luogo in cui due parti possano ascoltarsi sembra un miracolo della tecnologia moderna ma anche un’arte antica, quasi perduta

ha scritto Dahlia Lithwick. Una speranza c’è. Ci sarà sempre una stanza aperta dove, chi vorrà, potrà condividere la propria storia sapendo che troverà rispetto, ascolto e pace.

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