Come te lo spiego l’odio provato per quelle mezzecalzette che si beavano dei loro capelli lisci calati sugli occhi? Io che mi sentivo il brutto anatroccolo per quei ricci incontrollati che schizzavano dappertutto… Niente. Di altro non mi esce niente. Sarà che a forza di ragionare sulla diversità mi si è rattrappito il comprendonio, ma se ci provo adesso mi viene come uno sbadiglio, un senso di spleen, una visione affranta della sera.

In realtà avrei tipo una voglia di parlare dei miei capelli, ma poi mi chiedo, come si fa? E a chi caspita gliene dovrebbe fregare? Certo che non hai idea di quanto una chioma caprina come la mia possa influenzare un’esistenza. Se devi di continuo confrontarti con l’aspetto per lo meno normale degli altri quando tu sembri uscito pari pari da una favola di elfi, hai voglia a dichiarare che fa tipo, cerchi furiosamente di convincerti che una indipendente e alternativa vita interiore basti a se stessa.

Con lo stracavolo che ci credi, però. Ma come te lo spiego l’odio assassino provato per quelle mezzecalzette fesse che si beavano dei loro gratuiti lisciumi calati sugli occhi dai colori ordinari, mentre io ero lì, persa nel mio scombiccheramento personale, tutta gialla pallida e con l’anima proprio completamente sciammannata?

Facevo delicati pensierini del tipo: “…tacci tua, te lo stai proprio a godé ‘sto ciuffo, eh?”. E… per esempio, al mare mica ci andavo: dopo aver stirato i ricci per ore non potevo rischiare di vanificare i miei sforzi. Quindi niente palestra o jogging o spettacoli all’aperto di sera o feste nei giardini, che neppure durava, lo stiraggio. Bastava poco, un niente, un refolo più umido, ma che dico, di meno, uno che mi respirasse un po’ più forte vicino, ed eccoti di nuovo il crespazzo riaffiorare dal nulla, vallo a sapere che poi un giorno tutta quella stranezza mi sarebbe tornata utile

Il fatto è che ero troppo piccola, e in realtà ancora credevo solo nel corpo, nelle pieghe della carne scoprivo un nuovo mondo, mi rifugiavo nel piacere che si muoveva a piccole scossette molli o a ondate transumanti, e lo spirito se ne andava per traverso. 

Nel mio bignami del comportamento non c’era traccia di indicazioni sul decoro, con la mia testa di zerbino mi permettevo ogni lusso godereccio, e facevo pure delle cose schifose, tipo togliermi una crosta e masticarla vischiosamente coi denti davanti, e mi mangiavo le mani e mi mordevo l’interno delle guance, e mentre tutti facevano la fila per entrare in discoteca io stavo le ore a intrecciarmi i capelli con fili e foglie, e poi ci andavo pure in giro fingendo di sentirmi perfettamente a mio agio. 

In pratica mi accanivo su me stessa per la mia diversità. E la cercavo. E la trovavo, pure, la mia diversità. Un inizio di gioco al massacro che scenderà sempre più a fondo, che coinvolgerà ogni strato della mia esistenza e che durerà anni, tutti gli anni a venire fino a poco fa.

Finché un giorno, dopo tanto patimento goduto, non mi è andato più. Daje e daje alla fine ce l’ho fatta a riconoscermi per l’essere umano strafigo e spaziale che ero, capelli e tutto. Una vita, ci ho messo, a capire il valore della mia diversità, e adesso sto cercando di imparare definitivamente che: ci ho i difetti, embé? Magari dopo tutto pure a Sharon Stone gli puzza il fiato, qualche volta.

Se vi identificate in queste righe, rileggetevi Messaggio per un’aquila che si crede un pollo, di Anthony di Mello. Un uovo di aquila, finito nel nido di una chioccia, si schiuse, e l’aquila, cresciuta con i pulcini, fece per tutta la vita quello che facevano i polli nel cortile.

Poi un giorno vide volare sopra di lei un magnifico uccello. “Chi è?” chiese al vicino. “E’ l’aquila, la regina degli uccelli, ma non ci pensare. Tu ed io siamo diversi da lei“. E l’aquila non ci pensò più, morendo nella convinzione di essere una gallina… Una lettura spirituale attraverso piccole storie e aneddoti per tutti che aiutano a pensare.

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