Nicola Borghesi, dispositivo artistico della realtà
Nicola Borghesi è un giovane uomo che ha le idee chiare su cosa significhi per lui fare Teatro, o meglio, essere Teatro.

Nicola Borghesi è un giovane uomo che ha le idee chiare su cosa significhi per lui fare Teatro, o meglio, essere Teatro.

Nicola Borghesi è un giovane uomo che ha le idee chiare su cosa significhi per lui fare Teatro, o meglio, essere Teatro. La prima volta che l’ho conosciuto era in uno spazio teatrale della sua Bologna e quando ci hanno presentato stava spostando delle pile di sedie per riorganizzare lo spazio teatrale più corrispondente alla sua visione di come doveva essere seduto il pubblico…
Non ricordo bene che spettacolo fosse (non uno suo) ero lì di passaggio, non ricordo neanche perché ero passato da quel posto, ma a pensare al suo modo di fare Teatro, quel “riorganizzare” aveva a che fare con la sua poetica. In scena con Nicola ci vanno i “non” attori le non “attrici” e le storie di persone ai margini diventano capolavori di letteratura teatrale che nobilità la ricerca del teatro moderno.
Se dovessi raccontare di te in terza persona, come ti racconteresti?
Direi che Nicola Borghesi è uno che di mestiere fa l’attore, il regista e l’autore. Vive a Bologna, città dove è nato e dalla quale se ne è andato per una decina di anni, per poi ritornare. Ha fondato, insieme a Enrico Baraldi, una compagnia che si chiama Kepler-452, con la quale realizza la maggior parte dei suoi lavori. La sua indagine artistica si focalizza soprattutto sull’invenzione di dispositivi artistici di messa in scena della realtà: realizza reportage teatrali, coinvolge non professionisti (o attori-mondo), esplora luoghi poco frequentati per raccontarli, crea e armonizza, sulla base di libere associazioni, gruppi improbabili di esseri umani. Per fare degli spettacoli, negli ultimi anni si è trovato a vivere o a trascorrere lunghi periodi in una fabbrica occupata, una nave che fa ricerca e soccorso di migranti, un carcere, un hub di sgomberati, centri di salute mentale, dormitori per senzatetto, scuole medie superiori e molti altri luoghi che sarebbe lungo elencare. È da ormai molti anni prodotto da ERT- Emilia Romagna Teatro, che è un posto in cui sta bene. Il suo ultimo spettacolo si chiama A place of safety e sarà in tournèe la prossima stagione.

Che significa, per te, essere un regista/autore/attore di sè stesso?
Per me il teatro è una cosa che non si fa mai in solitudine. Anche quando faccio spettacoli in cui sono da solo in scena, è tutto sempre frutto di un pensiero e di uno sforzo collettivi. Penso tuttavia che stare in scena dicendo cose che ho scritto io stesso sia una garanzia di aderenza a ciò che faccio sul palco che non sarei in grado di trovare in parole scritte da qualcun altro.
Cosa ti spaventa, di più, del mondo del Teatro?
Andare in scena. Nulla è più spaventoso di andare in scena.
Cosa ti fa “perdere la testa” (in positivo e anche negativamente)?
In generale cerco di non perdere la testa, essere lucidi mi sembra una delle poche risorse che ci rimangono nella vita. Però delle volte mi capita di perdere la testa su delle cose stupide, delle sciocchezze. Di solito deriva dal fatto che mi sembra di essere stato trattato male senza motivo. Ecco, allora lì perdo la testa. Oppure, al contrario, faccio cose del tutto antieconomiche e insensate se qualcuno o qualcosa mi piace.
Quali difficoltà trovi, se ne hai, nella direzione degli attori/trici?
Non mi capita quasi mai di lavorare con attori o attrici, più frequentemente mi capita di dirigere operai metalmeccanici, marinai, elettricisti, senzatetto, cacciatori di piccioni, studenti delle superiori. Il che rende il mio lavoro, da un certo punto di vista, più facile. Il problema, con gli attori, di solito, è che ciascuno, giustamente, ha il proprio modo di stare in scena, che dipende dal percorso che ha fatto, dal suo gusto, dall’idea che ha del teatro. C’è, a volte, negli attori, un desiderio di rappresentare che diventa, paradossalmente, un limite. Coi non professionisti è tutto più facile: non hanno nessuna idea del teatro, è il loro istinto a raccontare la propria vita che li guida e questo rende il lavoro del regista, da un certo punto di vista, più facile. In generale, con professionisti e non professionisti, la cosa più difficile da individuare, per il tipo di lavoro che faccio, è il limite di ciò che possono permettersi di raccontare di sé.

Quali è la parte più bella del tuo lavoro?
La parte più bella del mio lavoro, sono due. La prima sono i periodi che trascorro in luoghi improbabili per le ricerche preliminari agli spettacoli, il privilegio di essere retribuito per esplorare pezzi di mondo che mi interessano ed avere a che fare con persone delle quali sono curioso e che spesso vivono vite, dal mio punto di vista, assurde. La seconda è quando ho finito lo spettacolo. Quello è un momento in cui sto veramente bene: ho finito.
Che tipo di spettatore sei, quando vai a teatro?
Purtroppo dopo tanti anni in cui sono andato a teatro molto spesso, sono uno spettatore difficile da stupire. Quasi tutti gli spettacoli che vedo mi ricordano qualche altro spettacolo che ho visto, e questo un po’ mi dispiace. Tuttavia, mi capita spesso di notare dei dettagli, spesso sono dei minuti o dei secondi di spettacolo, che mi colpiscono enormemente, e quello è il motivo per cui continuo ad andare a teatro. In generale non ho alcun tipo di preclusione per spettacoli molto diversi da quelli che faccio io, anzi.
Cosa ti diverte di più del racconto che fanno di te gli amici/che…oppure le persone che non conosci ma delle quali percepisci cosa pensano di te?
In generale faccio sempre fatica a immaginare cosa le persone pensino o anche solo percepiscano di me. Di solito rimango stupito quando mi dicono qualcosa di buono. Penso di dare l’idea di una persona inquieta, agitata. Una volta una signora, a Ozzano Emilia, dopo una replica di uno spettacolo che si chiama Gli altri -che è un monologo nel quale mi scaldo, urlo, inveisco, mi agito- mi ha detto: bravo eh, ma cerca di stare anche un po’ calmo.
Politica = Teatro oppure Teatro è Politica?
Un critico francese che si chiama Olivier Neveux mi ha insegnato che tutti gli spettacoli del mondo sono collocabili politicamente, anche quando non lo vogliono o non lo sanno. Tutto dipende da quanto siano di ostacolo o di giovamento al sistema dato, che nel nostro caso è il modo di produzione capitalistico. Dunque direi che ogni gesto artistico è, più o meno consapevolmente, un atto di posizionamento politico. A volte è più utile, per capire la realtà, un buono spettacolo di destra che un cattivo spettacolo di sinistra.
Cosa abbiamo (fortunatamente) lasciato nel Teatro del passato?
Ho come l’impressione che nulla passi mai, nel teatro, nel bene e nel male. Il senso di compresenza di diversi tempi che percepisco quando sono dentro un teatro mi impressiona. In generale però, ad esempio, mi sembra che ultimamente si faccia meno caso alla “pulizia dell’accento”, che è una cosa che mi conforta. Mi piace sentire il suono che fanno le persone, capire da dove vengono. In generale, degli attori, mi piace vedere chi sono davvero e il suono della loro lingua è un ottimo veicolo, in questo senso. Un’altra cosa che mi sembra diventi sempre meno accettata e dunque diffusa sono i registi che urlano agli attori. L’ho sempre trovata una pratica barbara, ancorché molto diffusa. Più che altro non ho mai visto un attore produrre risultati duraturi perché un regista gli ha gridato contro. E se anche questo producesse risultati duraturi, non ne varrebbe comunque la pena. In generale, quando un regista se la prendo con gli attori, significa non solo che non sta facendo bene il proprio mestiere, ma, quel che è peggio, che non se ne sta nemmeno accorgendo. E -peggio ancora- che non ha una vera strategia per far andare meglio le cose.

Cosa stiamo abbiamo (purtroppo) perso del Teatro del passato?
Non mi rassegno, non mi rassegnerò mai, alla scomparsa delle lampade alogene. Tutti quelli che ne capiscono più di me di luci continuano a dirmi che ci sono led bellissimi, impressionanti, che producono effetti indistinguibili dalle lampade alogene. Avranno sicuramente ragione loro, ma io continuo a trovare la luce che fanno i led, bruttissima. Inoltre i fari led di buona qualità costano cifre inaccessibili, quindi è molto frequente trovarsi con catorci che, a bassa intensità, producono tremolii inaccettabili. Un’altra cosa della cui scomparsa mi dispiace sono le lunghe teniture e le compagnie numerose e, dunque, delle tournée che durano mesi e danno alla compagnia quella strana consistenza di famiglia.
Sei diventato ciò che sognavi di diventare da bambino?
Quando ero bambino non avevo un’idea precisa di che cosa volessi diventare da grande. Ho sempre detto di voler fare l’attore, ma penso fosse un’immagine davvero molto vaga. Quello che posso dire è che oggi non vorrei in nessun caso condurre una vita diversa da quella che conduco e che mi sento fortunatissimo. Se ripenso ai luoghi visti e alle persone incontrate in questi ultimi dieci anni, non mi sembra vero di aver vissuto una vita così bella.
Cosa pensi del “Pubblico” (spettatori/trici)?
Il pubblico mi piace moltissimo e mi spaventa pure moltissimo. Spesso mi commuove. A volte mi fa arrabbiare. In generale, quando sto per cominciare una replica e vedo che arrivano delle persone, sono incredulo. C’è davvero qualcosa di miracoloso nel fatto che, nel 2025, nel mondo per come lo conosco, ci siano delle persone che vanno a teatro. Mi sembra un mistero. A volte anche una fortuna insperata che non durerà. A volte penso: godiamoci questo momento, che chissà se si ripeterà. Fino ad ora si è ripetuto molte volte, speriamo continui.
Chi è il tuo punto di riferimento, oggi (cinema teatro musica arte vita privata…)?
Dal punto di vista politico il mio punto di riferimento è Karl Marx e i suoi scritti. Dal punto di vista della lettura degli esseri umani, Sigmund Freud. Tra le persone viventi la più politicamente rilevante che conosco è Dario Salvetti, RSU del Collettivo di fabbrica GKN, che mi ha insegnato moltissime cose, che è in scena con noi in uno spettacolo che si chiama Il Capitale – Un libro che ancora non abbiamo letto, e che è autore della frase che chiude quello spettacolo: scegliamoci delle buone compagne e dei buoni compagni di vita e di lotta e proviamoci, a non vivere invano e a non morire soli.
Cos’è che ti fa scoraggiare?
Mi scoraggia tutto ciò che avviene nell’inconsapevolezza, tranne rari casi. Mi scoraggia la progressiva scomparsa del welfare state nel nostro paese, la progressiva chiusura di luoghi belli e la progressiva apertura di luoghi brutti. Mi scoraggia l’avvento delle nuove destre, ma anche il centrosinistra. Mi scoraggia invecchiare, ma anche non diventare mai compiutamente adulti. Mi scoraggio soprattutto quando noto che mi scoraggio.
L’ultima volta che ti sei commosso per un’opera d’arte (cinema, teatro, musica, musei)?
Onestamente l’ultima volta che mi sono commosso in una sala teatrale stavo guardando le prove di uno spettacolo che sta preparando Sofia Longhini, che è anche la mia compagna di vita, che si chiama Tutte le cose più grandi di me.
In cosa credi?
In generale credo in due cose: che l’unica fonte di valore è il lavoro e che ogni sogno è l’appagamento di un desiderio. Più in generale sono un comunista.
