Partiamo dal principio: cosa significa stereotipo?

Ste·re·ò·ti·po: aggettivo e sostantivo maschile. Come aggettivo è relativo al sistema di riproduzione per stereotipia: lastre s.; edizione s.; fig., a proposito di una ripetizione o di una fissità immutabile: i soliti discorsi s. (più com. stereotipato); come sostantivo maschile, in psicologia, significa qualsiasi opinione rigidamente precostituita e generalizzata, cioè non acquisita sulla base di un’esperienza diretta e che prescinde dalla valutazione dei singoli casi, su persone o gruppi sociali.

Il concetto di stereotipo, sia esso di genere o relativo ad altre categorie sociali, ha la sua culla nella psicologia sociale, sebbene il primo a utilizzare questo termine sia stato, nel 1922, Walter Lippmann, un giornalista. Egli nel suo volume L’opinione pubblica afferma che le persone che appartengono a uno stesso gruppo, in seguito alle relative preconcezioni, vengono percepite indistinguibili tra loro, così come risultano indistinguibili le copie di un giornale che provengono dallo stesso stampo tipografico (lo stereotipo).

Specificatamente, gli stereotipi di genere sono un insieme rigido di credenze condivise e trasmesse socialmente, su quelli che sono e devono essere i comportamenti, il ruolo, le occupazioni, i tratti, l’apparenza fisica di una persona, in relazione alla sua appartenenza di genere. La mancanza di conformità a tali attese fa sì che le persone interessate vengano ritenute o giudicate come poco femminili o poco mascoline. 

Si può definire anche come percezione pubblica/condivisa delle differenze sessuali nei tratti di personalità e nei comportamenti (Lueptow et alii 2001) oppure come conoscenza schematica della realtà, condivisa da un intero gruppo sociale, che ha per oggetto singole persone o gruppi sociali.

Nella fattispecie, definisce le caratteristiche di tutti/e coloro che hanno sesso femminile o maschile. Si tratta di una forma imprecisa di conoscenza perché non coglie né le differenze all’interno del gruppo da esso definito né l’evoluzione a cui il gruppo stesso è inevitabilmente soggetto. Per il modo in cui viene costruito, finisce pertanto con il cristallizzare l’immagine di una realtà che è invece in movimento. 

Gli stereotipi, però, possono anche essere utili per affrontare la vita, insieme ai pregiudizi fanno parte di quegli strumenti che gli esseri umani sviluppano per proteggersi dai pericoli, per vivere senza confondersi continuamente di fronte alle migliaia di stimoli che ricevono ogni momento, per leggere la realtà e decidere cosa fare: dividere il mondo in categorie, a volte, può aiutare a vivere serenamente.

Insomma, gli stereotipi non sono necessariamente brutti, sporchi e cattivi, ma non bisogna esagerare.

C’è un bellissimo video che mostra i classici stereotipi di genere con cui ognuno di noi si è dovuto confrontare. E’ stato realizzato dal Centro di Ateneo SInAPSi dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, centro creato per tutti gli studenti che si sentono esclusi dalla vita universitaria a causa di disabilità, Disturbi Specifici dell’Apprendimento (dislessia, disgrafia, disortografia, discalculia) o difficoltà temporanee.

Nessuno è stato immune al tipo di trattamento descritto nel video, alcuni lo hanno ricevuto in tutte le sue sfaccettature, altri lo hanno subito a dose ridotte, in ogni caso quasi tutte le donne hanno avuto uno o più capi di abbigliamento di colore rosa nel loro armadio, difficile che quasi tutti gli uomini possano dire lo stesso.

Volendo approfondire, sul sito della fashion therapist Loretta Valentino trovate la curiosa storia dell’assegnazione dei colori rosa e azzurro e le sue evoluzioni storiche. Il rosa e il blu non sono solo colori, nel caso degli stereotipi di genere diventano personalità, caratteri, stili di vita, da rappresentare e seguire rigidamente, pena il giudizio di essere troppo o troppo poco rispondente alla regola.

I mass media e gli stereotipi di genere

Ma come si forma la regola, e come si diffonde? Perchè da ragazzina, quando avevo i capelli molto corti e giravo in salopette, mi veniva detto che ero un maschietto o un maschiaccio (a seconda della benevolenza dell’interlocutore)?

Tra i maggiori artefici e diffusori degli stereotipi troviamo i mass media, molte ricerche in questo senso si sono concentrate sulle pubblicità.

Una ricerca condotta in Italia da Guastini, Cosenza, Colombari e Gasparri (2014), ha monitorato circa 7 mila campagne uscite in televisione e stampa nel dicembre 2013, e ha mostrato che la rappresentazione di uomini e donne è quantitativamente e qualitativamente diversa. 

Le donne sono rappresentate più frequentemente degli uomini, ma sono più spesso raffigurate in maniera decorativa, in modo da suggerire disponibilità sessuale o, per usare l’espressione degli autori, in posa «pre-orgasmica». Anche se la percentuale di donne pre-orgasmiche è modesta, non sono stati riscontrati casi di uomini pre-orgasmici.

Nel solo mese di dicembre 2013, per veicolare immagini di donne sessualmente disponibili sono stati investiti 10.894.274 €, contro i 487.337 € investiti su analoghe figure maschili.

La disparità nella rappresentazione tra uomini e donne si riscontra quindi anche dal punto di vista degli investimenti economici: per le donne gli investimenti puntano sulla donna-modella, per gli uomini sull’uomo-professionista.

Come negli altri ambiti della vita sociale, anche nei media gli stereotipi maschili continuano a sottolineare la dimensione dell’agency (l’essere autocentrati, orientati al compito, impegnati nel raggiungimento dei propri obiettivi) e gli stereotipi femminili la dimensione della communality (pensare agli altri, essere attente alle relazioni, provare empatia e comprensione) (Eagly & Johannesen-Schmidt, 2001), in linea con la teoria dei ruoli sociali, che afferma che i contenuti stereotipici sono legati alla posizione sociale di uomini e donne.

Alle donne si richiedono infatti qualità communal indispensabili a ricoprire ruoli domestici e di cura, agli uomini qualità agentic necessarie a ricoprire i molteplici ruoli del lavoro extradomestico (Eagly, 1987). Fin dalle prime analisi che hanno indagato gli stereotipi di genere nell’universo pubblicitario, è emerso che alle donne vengono spesso assegnati ruoli decorativi e sessualizzanti e che sono prevalentemente impiegate negli spot di prodotti poco costosi (cibi, cosmetici, detersivi), mentre gli uomini sono rappresentati in modo attivo e associati ad attività prestigiose (Goffman, 1978).

La rappresentazione stereotipica e sessualizzata della donna non dilaga solo nella pubblicità per gli adulti, ma anche in quella rivolta ai più giovani. In Italia, Zogmaister e Castelli (1998) hanno individuato come i messaggi pubblicitari diretti a bambini e bambine rinforzino i tradizionali stereotipi di genere: i messaggi pubblicitari rivolti ai maschi si caratterizzano per l’enfasi posta su aspetti di competizione, quelli rivolti alle femmine per l’enfasi posta su interazioni sociali positive. Le bambine, gentili e affettuose, sono ritratte soprattutto all’interno dell’ambiente domestico, i bambini, indipendenti e autonomi, nell’arena sociale”.

L’Italia è ancora un Paese di bianchi, eterosessuali e giovani?

Per dare un’idea dello scollamento di tali immagini stereotipate dalla realtà, ci basti sapere che  la rappresentazione degli italiani che emerge dagli spot televisivi è quella di un Paese composto da persone bianche, giovani, eterosessuali, di classe media… l’Italia non è così da almeno 50 anni.

E in sintesi, quali rappresentazioni stereotipate possibili per la donna?

“I risultati dell’indagine confermano la presenza di stereotipi di genere ed elementi di sessualizzazione nella programmazione pubblicitaria che raffigurano la donna come dotata di poche e immutabili caratteristiche: madre o seduttrice. Nel loro insieme, questi aspetti riproducono una cornice ideologica di sessismo benevolo che, come molti studi hanno insegnato, concorre potentemente al mantenimento delle disparità di genere”.

Sbirciando i nostri comportamenti quotidiani, ritrovando i nostri ricordi, osservando i nostri pensieri (quelli che difficilmente si possono ammettere, anche a noi stessi, soprattutto se ci consideriamo di mentalità aperta), troveremo sicuramente traccia della cornice ideologica a cui si fa cenno. 

Ci permea, e ci avvolge, anche quando ci crediamo veramente liberi, spesso dobbiamo confrontarci con un mondo che prevalentemente la subisce e la accetta. Doversi adeguare è molto faticoso per tutti, riuscire a distaccarsene totalmente è impossibile.

Cercare di modificare il nostro sguardo su di noi stessi, accogliendo il nostro essere non conformi, concedendoci sempre di più di essere troppo o troppo poco, è un passo che allenta le maglie dello stereotipo.

*Il virgolettato è tratto da: Valtorta, R., Sacino, A., Baldissarri, C., Volpato, C. (2017). Gli stereotipi di genere nella pubblicità televisiva: evoluzione o regressione?. In Atti del Convegno Tematico “Sui generi. Identità e stereotipi in evoluzione?”, Associazione Italiana di Psicologia (AIP), sezione di Psicologia Sociale, Torino, Italia.

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