Negli ultimi mesi abbiamo assistito ad un’involuzione del linguaggio soprattutto in ambito televisivo pur di arrivare ad un pubblico più ampio e fare ascolti. Alcuni esempi di programmi tv o personaggi sono lampanti.

Partiamo dal duo comico Pio e Amedeo sui cui bisogna fare 2 discorsi distinti: uno è quello personale relativamente al mio gusto e a quel che mi fa ridere o meno e in questo caso non mi hanno fatto mai nemmeno sorridere, se mai un po’ di tristezza. Poi a prescindere dal mio gusto personale c’è un’osservazione relativamente alla loro comicità, al linguaggio che usano che nessuno può negare esser banale e volgare per quanto non faccia altro che usare e cavalcare tutti gli stereotipi possibili e immaginabili. Già dai tempi de Le Iene li osservavo a fatica ma con curiosità per capire fin dove si sarebbero spinti e devo dire che son andati sempre ben oltre quel che già temevo. La loro è una comicità da bar di periferia, senza nulla togliere ai bar di periferia, in cui si fa leva su una fascia di persone che non conoscono la satira o l’ironia ma più la barzelletta, possibilmente zozza o di quelle che iniziano con “c’è un americano, cinese e un……”.

A me non sembra un gran successo personale riuscire a far ridere in questo modo perché non c’è alcuna ricerca di linguaggio, alcuna sfumatura, satira o provocazione che si possa chiamar tale, di nessun tipo; c’è solo un prendere in giro alcune minoranze usando i peggiori e volgari cliché che suscitano tanta ilarità in persone che invece andrebbero stimolate, anche nella comicità e nell’umorismo, in modo più intelligente e articolato.

Sicuramente è molto più facile salire sul palco e raccontare barzellette o dire battute che solo alcuni, dopo cena e un po’ di alcool in corpo, avrebbero il coraggio di raccontare; loro ne hanno fatto un mestiere e fanno successo, quindi profitto per tutti, e se questo è il fine sicuramente hanno raggiunto l’obiettivo. Ma si può terminare qui?
Si può lasciare che si dia in pasto ad un pubblico, che per definizione non è colto (e bisogna terminare con l’ipocrisia che il pubblico è intelligente etc, ) ma andrebbe nutrito e stimolato, performance di questo tipo?
Vai con termini come ricchione e altri, e tutti giù a ridere; quelli che ridono a queste battute son quelli su cui si tenta di fare un grande lavoro proprio sull’uso delle parole, sull’inclusione e il rispetto partendo dal linguaggio. Coloro che ridono a tutto ciò non attendono altro che esser autorizzati nell’uso di parole oggettivamente offensive, che non riconoscono i limiti del loro utilizzo nei luoghi, nei modi e nei contesti e sono quelli che da una parola possono arrivare anche ad altro perché se insegni o inviti le persone ad utilizzare termini per cui le persone che identifichi con quegli aggettivi diventano bersagli comici non puoi sorprenderti che diventino poi bersagli di altro tipo dopo. Ovviamente comici o attori di questo tipo tendono a buttare tutto in caciara, a dire che non si può dire più nulla, che la gente “ha bisogno di ridere” ma spero per loro che queste giustificazioni vengano espresse in modo cinico e furbo per continuare a fare successo fregandosene della qualità e delle conseguenze; perché se dovessi pensare che con queste motivazioni fossero anche in buona fede giudicherei l’intelligenza oltre che le loro performance.

Pio e Amedeo hanno vinto di recente in un programma tv RAI il Premio “per aver innovato il linguaggio televisivo e saper cogliere le sfaccettature della vita quotidiana”. Anche qui non so se siamo più al paradosso o al ridicolo. Cosa si intende per innovazione? Forse la capacità di riportare tutto ad un livello così basso che solo loro due hanno trovato il coraggio di fare? Per il coraggio gli va sicuramente dato un premio ma non sono sicuro che sia un merito. Poi quali sfaccettature della vita quotidiana hanno colto? La risposta di comici di questo tipo è sempre la stessa più o meno “noi facciamo ridere e gli altri sono invidiosi che noi abbiamo successo e poi il pubblico ci ama, il pubblico non è scemo, basta sottovalutare il pubblico etc…….” e come accennavo prima con la scusa di affidare al pubblico il giudizio supremo con il telecomando chi fa più ascolti viene assolto, a prescindere dal contenuto e dal danno che possa fare con l’uso di un certo linguaggio.

Altro caso che rientra nella categoria “tutto per gli ascolti e far parlare” è il Grande Fratello che ho sempre seguito. Quest’anno però a differenza di altre edizioni passate è successo un fatto. Il team del programma tv (conduttore Alfonso Signorini, supportato, immaginiamo, da autori, produttori e quant’altro) dopo qualche scivolone di qualche coinquilino della casa che ha, come capita tutti gli anni, utilizzato termini offensivi e poco inclusivi, ha pensato, con un discorso fatto durante una puntata in diretta tv, di riscrivere le regole del buon senso e comunicato che non verranno puniti drasticamente gli atteggiamenti o le parole dette ma verranno valutate le intenzioni con cui verranno espressi. A sottolineare questo concetto un’esternazione del conduttore che ha detto (sintetizzo) “saremo un po meno bacchettoni, perché non appena sentiamo una parola invochiamo subito body shaming, metoo basta non se ne può più”.

Non credevo alle mie orecchie. Il punto è sempre lo stesso, si può esprimere un’opinione anche per valutare di volta in volta le singole azioni, ma già nel momento in cui usi, con un tono di sufficienza, termini come body shaming, metoo hai già sbagliato. Anche in questo caso tutto per cosa? Per giustificare la permanenza nella casa di alcuni VIP, che sono il pezzo forte del programma tv, e non possono rischiare di buttarli fuori al primo scivolone, come l’hanno chiamato loro. Fino ad edizioni precedenti, per quanto il programma possa piacere o no, esternazioni poco rispettose venivano riprese seriamente e la persona veniva espulsa dal programma; quest’anno invece ci sono le premesse perché si possa “passare sopra” a certi “scivoloni” perché se ogni puntata dovessero buttar fuori un VIPPONE poi il programma lo si farebbe in cucina e non più in una casa.

Questi non sono gli unici casi in cui tutto sembra esser fatto per arrivare a fare ascolti, sappiamo tutti che la tv purtroppo si regge su questo, ma la sfida sarebbe proprio quella di raggiungere un obiettivo senza sacrificare tutto e a qualsiasi costo.

Tutto questo mi ha portato alla memoria il film Quinto Potere di Sidney Lumet del 1976. Un film vecchio ma molto attuale, in cui chi parla alla telecamera è convinto ormai di esser in contatto con Dio, di esser padrone della verità; tra delirio e senso di onnipotenza, la tv fa da cassa di risonanza del proprio ego e alimenta la curiosità morbosa di un pubblico vorace. Questo film, che ha più di 40 anni, è un film cult, che ci racconta ancora molto di noi stessi. Questo film, come molti altri casi di tv dei giorni nostri, ci spiega molto di come sia il pubblico di cui facciamo parte anche noi; è troppo facile lasciare il giudizio al pubblico perché questo è come il conducente di un auto che si ferma ad un incidente per vedere cosa sia successo, tutti negano di farlo ma poi tutti si fermano. Allo stesso modo, di fronte a qualcosa di eclatante in tv o altrove ci incantiamo, se pur con il pretesto di disgusto e del dissenso ma ci soffermiamo promuovendo chi dall’altra parte fa scelte poco etiche per accendere alla nostra curiosità. Quindi il giudizio finale non può esser lasciato ad un dato di ascolto e ad un pubblico ma ci dev’essere un freno, una valutazione di buon senso prima di entrare nelle case degli spettatori.

Trailer film QUINTO POTERE

Per fortuna non ci sono solo realtà che puntano sull’ascolto cavalcando un linguaggio di cliché e poco inclusivo, ma esistono programmi tv e personaggi che intrattengono con un’intelligenza sagace che è figlia di una spontaneità naturale e ricercata allo stesso tempo;  una di queste è Geppi Cucciari e il suo programma tv di RAI3 CheSucc3de. Un programma eccezionale, e non perché mostri performance acrobatiche o gare canore, ma perché è una pillola di 25 minuti di televisione inclusiva che si regge sulla capacità di gestire, da parte della conduttrice, uno spazio in cui c’è di tutto: un linguaggio televisivo sarcastico che è complice del pubblico stesso che lo segue, una dialettica veloce e graffiante della conduttrice (suo talento indiscutibile), ospiti che spesso sono, per attività o scelte, portavoce o esempi di inclusione, e infine, protagonista indiscusso di questo mini show è un panel di persone assolutamente comuni, semplici che rispondono alla domande incalzanti di Geppi Cucciari che ne fa macchiette surreali mantenendo con loro un grande rispetto e complicità.

Alla sua seconda edizione questo programma si consolida più che gay friendly, direi proprio frocio per giocare nello stesso modo con le parole, si appropria di termini che sarebbero altrimenti oggetto di valutazione linguistica per smontarli con grande maestria. Il programma si rivolge a tutti trattando argomenti dalla politica, al sociale, all’intrattenimento, con uno sguardo attento a sfottere il potere, quello dell’uomo bianco, eterosessuale, occidentale, dominante e tutto ciò che riguardi una maggioranza a volte unica e onnipotente. Geppi riesce ad alternare finestre froce ad ospiti di rilievo con cui non ha atteggiamento ossequioso come avrebbero altri conduttori/trici, lei mette tutti sullo stesso piano, sfotte con intelligenza tutti, quindi porta il potente personaggio vicino al comune mortale e rende personaggio l’anonimo ospite del suo panel.

Geppi Cucciari riesce a smontare un cliché o uno stereotipo utilizzando contro questi le stesse parole che altri usano per rafforzarli, con un tono e una chiave di lettura che già nel loro utilizzo li deride. Io ne sono testimone perché dalla precedente edizione faccio parte del panel di persone con cui, random, si collega Geppi. In uno dei miei occasionali interventi ha giocato con me, con il mio atteggiamento, sicuramente non da maschio alpha, chiudendo il collegamento rivolgendosi al pubblico a casa “per gli eterosessuali i sottotitoli alla pagina 777 del televideo……” e il tutto con mio grande divertimento. La differenza tra un linguaggio come quest’ultimo e altri precedentemente citati sta nella complicità delle parti coinvolte, tra il conduttore e i protagonisti oggetti di satira; se con alcuni personaggi tv o in alcuni programmi tv non c’è un confronto e nemmeno un gioco delle parti, ma solo battute banali che arrivano dritte al pubblico senza esser smontate dalla complicità degli stessi protagonisti presi di mira, in altri come CheSucc3de e con Geppi il rispetto è dato proprio dall’inclusione nelle gag dei protagonisti oggetto di ironia.

Condividi: