Un nome, nient’altro.
Raccontarsi è il titolo di questa rubrica che raccoglie stralci di interviste rilasciate da scrittori contemporanei e non, senza riferimenti alle loro opere più famose, con l’intento di soffermarsi più sulla persona che si nasconde dietro i libri.
Capitolo I
David Foster Wallace
Per Wallace scrivere un romanzo equivale a fingere, ma quella finzione forse è vicina all’immortalità.
“Quando si scrive un romanzo” spiega “si sta dicendo una bugia. E’un gioco, ma il lettore non vuole che gli si ricordi che si tratta di una finzione. Deve essere convincente, o la storia non si imprimerà nella sua mente.
Scrivere romanzi mi fa sentire fuori dal tempo. Mi siedo ed è come se l’orologio non esistesse per qualche ora. Probabilmente è il momento più vicino all’immortalità che avrò mai”.
Un antidoto contro la solitudine.
Alcuni dei libri che ho letto non mi hanno fatto sentire lo stesso di prima, e penso che ogni buona scrittura in qualche modo affronti l’angoscia e agisca come un antidoto contro la solitudine. Siamo tutti terribilmente soli. […]
La narrativa in prosa può permetterti di essere intimo con il mondo, con una mente e con dei personaggi. Un buon pezzo di narrativa ti permette di essere intimo con un mondo che assomiglia al nostro in abbastanza dettagli emotivi tanto da riverberarsi nel mondo reale. Penso che ciò che vorrei che la mia roba facesse, fosse rendere le persone meno sole. O davvero toccare le persone.
Conversazioni fra coscienze.
La narrativa ben scritta è in grado di farmi dimenticare che sono seduto su una sedia. […] Qualcuno, almeno per un momento, sente o vede una cosa allo stesso modo in cui lo faccio io. Non succede sempre, si tratta di momenti brevi, ma riesco a percepirlo. Non mi sento più solo, intellettualmente, emozionalmente, spiritualmente. I romanzi e la poesia mi fanno sentire umano e in una profonda e significativa conversazione con un’altra coscienza in un modo in cui non riesco ad esserlo con altre forme d’arte.
L’obiettivo di una buona narrativa.
Una mia insegnante diceva che l’obiettivo della buona narrativa è quello di confortare i disturbati e disturbare il confortevole. Credo che una parte ineluttabile dell’essere umano sia la sofferenza e che questa ci faccia avvicinare all’arte in una sorta di esperienza indiretta.
Ogni due o tre generazioni il mondo cambia e il contesto in cui devi imparare come essere un essere umano, o avere buoni rapporti, o decidere se esiste un Dio o decidere se esiste una tale cosa come l’amore, e se è redentrice, diventa molto diverso.
Essere uno scrittore significa affrontare le proprie deformità ma c’è anche un lato divertente…
La metafora migliore che conosco dell’essere uno scrittore di narrativa è in Mao II di Don DeLillo, dove un libro-in-lavorazione è definito una specie di bimbetto mostruosamente mutilato che segue lo scrittore ovunque, reclamando amore. […]
Il tropo del bambino-mutilato è perfetto perché coglie quel misto di repulsione e amore che lo scrittore di narrativa prova per la cosa a cui sta lavorando. La narrativa viene sempre fuori cosí orridamente difettosa, un tradimento cosí mostruoso di tutte le speranze che riponi in lei – una caricatura crudele e ributtante della perfezione del suo concepimento – sí, avete capito: obbrobriosa perché imperfetta. Però vuoi bene al bambino mutilato e ti prendi cura di lui; ma lo odi anche – lo odi – perché è deforme, ributtante, perché gli è successo qualcosa di obbrobrioso nel parto dalla testa alla pagina; lo odi perché la sua deformità è la tua deformità. È tutto molto incasinato e triste, ma allo stesso tempo anche tenero, commovente e bello, e anche all’apice della sua mostruosità il bambino deforme risveglia quelle che hai il sospetto siano in assoluto le parti migliori di te: le parti materne, quelle oscure. Vuoi un gran bene al tuo bambino, e desideri che gliene vogliano anche gli altri. […]
All’inizio, quando cominci a scrivere narrativa, tutto lo sforzo si impernia sul divertimento. Non ti aspetti che qualcuno ti legga. Scrivi quasi esclusivamente per attivare fantasie e logiche devianti e per eludere o trasformare parti di te che non ti piacciono. E funziona – e ti diverti da morire. Poi, se hai fortuna e agli altri piace quello che fai, e finisce davvero che ti pagano per farlo, col vedere le tue cose nero su bianco, rilegate con tanto di fascetta pubblicitaria, il tutto diventa ancora piú divertente. […]
La motivazione del puro divertimento personale comincia a essere soppiantata da quella dell’essere apprezzato. L’onanismo, come motivazione, cede il passo alla tentata seduzione. Ora, la tentata seduzione non è un sforzo da poco, e il divertimento è compensato da una paura terribile del rifiuto. Il tuo ego, qualunque cosa significhi «ego», è entrato in gioco. O forse sarebbe meglio parlare di «vanità». Perché ti accorgi che ormai buona parte di quello che scrivi è diventato fondamentalmente esibizionismo, il tentativo di far pensare agli altri che sei bravo.
Per approfondire:
Conversations with David Foster Wallace di Stephen Burn (Ed. it. Un antidoto contro la solitudine, David Foster Wallace, Minimum Fax)
Di carne e di nulla, David Foster Wallace, Einaudi – Torino 2013