C’è una nuova malattia in giro, si chiama “morte”. Morire non è più vissuto come parte integrante di quel processo chiamato Vita, che inizia con la nascita e si conclude con la morte, ma come una malattia da sconfiggere, come qualcosa da ritardare il più possibile, anche quando la qualità di vita è pessima.

E’ da un po’ che è passato il giorno dei morti che, a seconda del punto di vista, (di come il punto di vista cambi tutto scriverò a breve), può essere anche il giorno della celebrazione della vita. Ricordarci che dobbiamo morire, perché la vita è fatta di nascita e morte e una non può esistere senza l’altra, è infatti essenziale, per ricordarci di vivere appieno. La consapevolezza di dover morire può nutrire la vita.

Morire, non parlarne non cambierà che moriremo

Nella nostra cultura si è smesso da tempo di parlare della morte, tanto da cominciare a considerarla qualcosa da sconfiggere e combattere. Eppure, non parlarne, non prepararsi al morire, non cambierà il fatto che Alla fine si muore, citando il titolo di un bel libro che vi consiglio di leggere.

Allora tanto vale arrivarci preparati, con una buona consapevolezza di quelli che sono i diritti di chi muore come previsto dalle DAT Disposizioni Anticipate di Trattamento che Ange Fey, l’autore del libro sopracitato, ci ricorda di preparare. Lo cito ancora:

“La morte non è una sfortuna che capita solo ad alcuni; è insita nel processo naturale della vita e, per quanto complicato da accettare o da comprendere, non esiste una giusta età per morire”.

Più un qualcosa è sconosciuto e nascosto più spaventa, e in culture dove si parla apertamente della morte, dove la si celebra, è anche più facile che le persone riescano a superare il lutto senza traumi e che chi si avvicina alla morte lo faccia con serenità.

Allo stesso tempo parlarne permette di renderci conto che l’unica certezza che abbiamo non è tanto la morte, che, lo ricordo ancora, è semplicemente una fase della vita, ma il fatto che non abbiamo certezze. Sapere di non sapere ci rende liberi, perché di fronte a quella che Ange Fey definisce “consapevole e rispettosa impotenza” l’unica cosa che rimane da fare è accogliere senza aspettative.

Più salgo di livello nel gioco della vita più mi rendo conto che praticamente ogni sofferenza deriva dalle aspettative tradite. Se restiamo nel flusso senza aspettative, possibilmente con consapevolezza, ogni avvenimento sarà un arricchimento, al di là del suo essere oggettivamente positivo o negativo.

“Il pensiero della fine, il pensiero della mia stessa morte, mi mette letteralmente in vita. Mi fa sentire l’urgenza di vivere” scrive ancora Fey che tiene anche seminari sull’accompagnamento al morire e non potrei essere più d’accordo di così. Da quando mi sono ricordata veramente di dover morire, qui ognuno avrà la sua epifania in merito, la mia vita è più vivida e preziosa. Non do mai nulla per scontato e la gratitudine permea le mie giornate. Ritornerò anche su questo tema a breve.

In che senso me ne sono ricordata?

Nel senso che vivendo in una cultura che censura la morte spesso arriviamo ad essere adulti senza aver integrato la consapevolezza di dover anche morire. Come madre non sono sicura di essere stata adeguata in questo senso ma credo che nascondere ai bambini, come si tende a fare nella nostra cultura, il concetto di cosa è la morte, almeno in relazione a questo piano di esistenza, sia problematico. Credo che sarebbe importante esplorare fin da giovanissimi il concetto che la morte è semplicemente un altro passaggio, come quello della nascita, allo stesso tempo coltivando con cura il senso di gratitudine che porta una vita in cui non diamo niente per scontato. Nemmeno la vita stessa.

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