Era la Notte del Getsemani. Era la notte dell’umanità. Era la notte in cui il nome di Gesù mutò in Cristo. Era la notte in cui il verbo trado si avverò nel sangue del Figlio dell’uomo.

Nel suo Alla fonte delle parole l’autrice Andrea Marcolongo ci illumina su questo verbo che in origine racchiudeva il significato di trasmettere, tramandare, consegnare nelle mani degli altri e anche di tradizione.

Composto di dare preceduto dal prefisso trans, solo quella notte e da quella notte in cui Gesù fu consegnato nelle mani dei gendarmi, il verbo assumerà il significato di tradire, nel senso in cui lo intendiamo oggi.

Il collegamento allora, non può che rimandarci ad una delle opere più singolari di Massimo Recalcati: La Notte del Getsemani. Nel libro l’autore racconta il tradimento di Gesù e ricorda come egli non volesse essere lasciato solo quella notte, di quanto avrebbe voluto che i discepoli vegliassero con lui e invece, abbandonati ad un placido sonno, non soccorrono il Maestro nelle ultime ore.

Sapeva bene il Figlio che insieme al Padre stava per concepire il sacrificio che avrebbe salvato l’umanità! Il Padre è il primo a consegnare il Figlio per il bene dell’umanità e al grido del perché l’abbia abbandonato, l’Altissimo risponde con il silenzio di Dio (Recalcati).

Ne La Notte del Getsemani Gesù viene tradito più volte secondo l’autore: sia da Giuda che da Pietro. Il tradimento di Giuda è successivo ad un senso di delusione che quest’ultimo avverte per primo. Giuda è innamorato di Gesù in modo idealizzato e come tale non riesce a concepire un’autonomia dell’amato che non coincida con i suoi desideri.

“Il suo amore idealizzato non poteva tener conto … dell’eterogeneità che disgiunge l’essere del Maestro dall’essere dell’allievo e da quello che questi si attende dal Maestro. L’innamoramento idealizzante esclude l’alterità dell’Altro..”

Così scrive Recalcati. Ed è con questi presupposti che Giuda consegna il Figlio dell’uomo per soli trenta denari: il costo di uno schiavo (ricorda l’autore).

Diversa invece, secondo Recalcati, la posizione di Pietro che tradisce per ragioni del tutto diverse che albergano nella labile consistenza della condizione umana. La differenza tra i due è sostanziale:

“Giuda, diversamente da Pietro, tesse un complotto, medita la rivincita aggressiva sul Maestro che lo ha deluso; Pietro invece tradisce per paura, per debolezza, per fragilità umanissima”.

In Pietro si ravvede dunque tutta la nostra flebile istanza di esseri sguarniti, vulnerabili, infermi, miserabili, umanissimi.

Questa notte, prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte (Mt 26, 34) così si era espresso Gesù nei confronti del principe degli Apostoli che indugia, ritratta, rivede la sua posizione e piange (lo ricorda Recalcati); ma Pietro è la traduzione di Kefa, nome che gli conferisce Gesù sostituendolo a Simone, e Kefa in ebraico significa pietra, e su quella pietra Cristo fonderà la sua Chiesa.

Pietro, c’è da aggiungere, è profondamente diverso da Paolo che non conoscerà mai Gesù, il cui credo si avvera solo in una fase adulta della sua vita e la cui missione principale è quella di predicare tra le genti, di diffondere la Parola, di tramandare ai posteri il messaggio evangelico.

Infine, anche Pietro vivrà la sua Notte del Getsemani, quando consegnerà la sua vita nelle mani dei sicari. La tradizione agiografica ci ricorda di come Pietro non se la sentisse di morire così presto per volere di Nerone nel suo Circo all’Ager Vaticanus (dove si crede sia avvenuta davvero la sua crocifissione) e fugge da Roma.

Sulla Regina Viarum, la Via Appia, incontra un uomo che riconosce come cristiano e senza indugio lo interroga: Domine, quo vadis? – “Signore, dove vai?”. Molti dei lettori comprenderanno che siamo all’altezza della Chiesa omonima, sulla Via Appia. L’Altro risponde: Eo romam iterum crucifigi“Vado a Roma per essere Crocifisso di nuovo”. Pietro capisce che quella è un’apparizione del Maestro e a sua volta con un gesto di grande amore e dedizione verso il Padre (come prima Gesù), inverte la marcia, torna indietro, affronta il suo destino consegnando se stesso all’Eternità.

Ma Pietro non se la sente tuttavia di essere crocifisso come il Maestro e chiede di soffrire il suo martirio a testa in giù. E in tempo di Quaresima il sacrificio è necessario per invocare la pace, per chiedere aiuto, per salvare di nuovo l’umanità.

Quel tempietto perfetto

In questo tempo di incertezza, vi chiediamo di andarlo a visitare quel luogo, quel luogo in cui Pietro, secondo una tradizione non troppo convincente, fu crocifisso a testa in giù. Nella Reale Accademia di Spagna sorge infatti il Tempietto di San Pietro in Montorio di Donato Bramante, un monumento di perfezione assoluta basato sulla restituzione di canoni esemplari in architettura.

Sedici colonne con capitelli dorici racchiudono una pianta circolare al cui interno giace un foro, una voragine, la selva oscura dell’umanità. Quel foro, attorno a cui Bramante realizzò il suo tempietto nel 1503 circa, era il luogo in cui la croce di Pietro fu issata (secondo una tradizione non confermata), condannando il Principe degli Apostoli a versare il proprio sangue, capovolto.

Furono i re spagnoli Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia a finanziare lo straordinario complesso che, oltre al Tempietto, prevedeva la costruzione di una chiesa anch’essa dedicata al Vicario di Cristo.

Per capirci, erano gli stessi re – sponsor ante litteram –  che finanziarono nel 1492 la più grande scoperta geografica dell’umanità, basata sul più grande errore che la storia ricordi: il progetto consisteva nel raggiungere le Indie navigando verso Ovest e il giovane talentuoso portava il nome di Cristoforo Colombo.

Vi lascio la pace, vi do la mia pace (Gv 14, 27) è l’eredità che ci ha lasciato Gesù. Riflettiamo su questo straordinario concetto e su quanto sia difficile accettare, ancora oggi, i redivivi conquistadores che mettono a repentaglio il messaggio che ci è stato tramandato da Gesù.

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