Mostrami i tuoi occhi, dice. Sii vivo, basta solo questo. Zanele Muholi (Umlazi, 1972), attivisti visuali, fotografi e filmaker sudafricani che da oltre un decennio lavorano per dare visibilità alla comunità LGBTQI in Sudafrica, chiedono questo a chi decide di porsi davanti alla loro fotocamera. Ma attenzione, Zanele Muholi non è un collettivo o un gruppo di artisti.
E’ un individuo, ma sceglie il loro piuttosto che il lui o lei, perché se deve decidere di appartenere ad un genere, Muholi sceglie quello non binario. Non lei/lui, ma loro. Ed è a loro che sia la Tate Modern che il MUDEC – Museo delle Culture di Milano, dedicano una grande personale – la prima, che avrebbe dovuto inaugurare alla fine di aprile, la seconda prevista per il prossimo ottobre. Come attivista visuale, Muholi punta (o puntano) il riflettore sul Sudafrica Post-Apartheid e sul coacervo di contraddizioni che gravano su quella comunità nascosta, quasi silente, del movimento LGBTQI sudafricano.
Con la sua progressista Costituzione del ’96, il Sudafrica si aggiudicava il titolo di primo paese al mondo a dichiarare fuori legge le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale, quinto, nel 2006, a consentire il matrimonio gay. Eppure. Crimini d’odio, stupri correttivi: nel 2016 tre quarti della popolazione riteneva immorali le relazioni omosessuali. Muholi si promette (o si promettono) di riscrivere la storia visiva del Sud Africa, capovolgendo quella narrativa dell’anonimato che aveva reso afasiche, invisibili, le numerose vittime nere dell’odio omo e transfobico. Come? Documentandole, facendone un monumento, quasi – da monere, ricordare (latino). Proponendo delle pagine vuote fra i ritratti che compongono la serie – iniziata nel 2006 e ancora attiva – di “Faces and Phases”: oltre 500 scatti a testimoniare la comunità LGBTQI sudafricana. Oltre 500 volti i cui occhi ci incatenano e ci impongono un imperativo, guardateci.
E le pagine bianche? Le pagine bianche sono i funerali, le scene del crimine, i matrimoni mancati. I non-visti, almeno non da noi. In Italia, il lavoro di Muholi è stato presentato nel 2019 alla Galleria del Cembalo di Roma, con la mostra Nobody can love you more than you, e alla 58esima Biennale di Venezia, curata da Ralph Rugoff, con la serie di autoritratti – iniziata nel 2012 e ancora in corso – Somnyama Ngonyama. Letteralmente, Ave Leonessa Nera. Indagare con fotografica inchiesta la comunità nera omossessuale comportava un rischio: dimenticarsi di esserne parte in quanto donna nera lesbica. L’artista passa allora dal ritratto, che risponde alla domanda chi sei?, al chi sono io dell’autoritratto. Rispondendo con un’identità espansa, delineata mediante una moltiplicazione di quel cosmo che il pronome loro ci aveva già suggerito. Attingendo alle pratiche del teatro, Muholi mette in scena la familiare immagine dell’Africa esotica, trasfigurandola. Collane di cavi elettrici, copricapi di banconote, parrucche di mollette per stendere i panni, lana d’acciaio e pneumatici di gomma per biciclette che diventano corone. Una manipolazione continua di materiali economici e di scarto affinché questi diventino qualcosa di più grande della somma delle loro parti. Affinché ci parlino dell’Africa, così come noi pensiamo di conoscerla. Per questo Muholi ci costringe a sostenere il suo sguardo. I suoi occhi, come mandorle sgusciate prive di ciglia, la sua bocca, ricoperta di biacca per far contrasto con la pelle scurita, ci chiedono una seconda lettura, un’analisi. “Io è un altro”, diceva Rimbaud. “In fondo, io sono ogni uomo della storia”, diceva Nietzsche negli anni del suo epilogo torinese. Oggi, a suo modo, Muholi sembra dire entrambe le cose.
“Ho realizzato Somnyama Ngonyama per dire che, se qualcuno non riesce a interagire con abbastanza persone nere, qui ci sono 365 immagini affinché familiarizzi e si senta a proprio agio con la blackness. Non è una caricatura, ma una persona, un essere umano”. Se ci permettessimo un ipotetico ed immaginario giro fra le fotografie di Muholi – alcune piccole, altre così grandi da imporsi fisicamente su chi le guarda – sentiremmo le mormorate confessioni dei visitatori mentre, con gli occhi di Muholi addosso, bisbigliano: “fanno paura, vero?”. Ernst Jentch è stato il primo a introdurre il concetto di perturbante, la sensazione che proviamo quando ci troviamo di fronte a qualcosa di inanimato, che sembra tuttavia avere vita. Freud l’ha approfondito, e ci ha detto che perturbante è ciò che poteva rimanere nascosto, precluso alla nostra vista, e che invece ci viene mostrato, è riaffiorato. Come gli incubi infantili, come l’uomo nero. Nelle immagini di Muholi vediamo quell’incontro di estraneità e familiarità – riconosciamo l’Africa, ma vediamo che gli elementi di disturbo presenti ci vogliono costringere ad una riflessione diversa – che caratterizza il perturbante e che ci spaventa.
Il prossimo ottobre, quando al MUDEC potremo davvero passeggiare tra queste eterogenee immagini, quasi totemizzate, facciamolo tenendo a mente la dichiarazione di Muholi: “vivi come una persona nera per 365 giorni all’anno”. Approfondiamo il concetto di intersezionalità (dall’inglese intersectionality), termine coniato nel ’89 dall’attivista e giurista statunitense Kimberlé Crenshaw per descrivere la sovrapposizione di diverse identità sociali; in questo caso: donna, nera, lesbica. E chiediamoci quali proiezioni stiamo operando sulla sua immagine, a quali archetipi stiamo rispondendo, e quanta de-costruzione di significati stratificati sarà necessaria per capire, stavolta veramente, cosa vuol dire Somnyama Ngonyama.